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provò un singolare dispetto vedendola così. — S’è rimessa? le domandò.

— Lo vede! rispose ella tranquillamente.

Prendevano il caffè in giardino; Velleda posò la chicchera sulla tavola di marmo, e si mise a dondolare su di una poltrona di legno: — E il suo amico, non torna più? domandò dopo qualche tempo ad Alberto. Ei rispose, con un poco di sorpresa: — Verrà domani o doman l’altro.

— Ah!

Si alzò, lasciò i due cugini in giardino, e andò a mettersi al piano. Il tocco della sua mano era secco, nervoso, quasi aspro; la melodia errava scucita, e come soffocata in mezzo ad un nembo di accordi tempestosi c’era l’indolenza, la sprezzatura, la sbadataggine di chi va seguendo sui tasti i propri pensieri, e sdegna di afferrarli. Quella strana musica irrompeva dalle finestre aperte, e soverchiava, direi turbava, la pace solenne della sera; sembrava udirvi scoppi d’allegria e gemiti soffocati, e aveva qualcosa della leggiadria bizzarra della suonatrice.

Alberto si avvicinò al piano, e stette a guardar Velleda. Ella sembrava una statua di marmo che suonasse calma, impassibile, cogli occhi fissi sulla carta.

— Canterai qualcosa? domandò Adele,

Ella scosse il capo continuando a suonare, poscia smise, e si alzò.

— Così presto! disse Alberto; continui a suonare almeno!