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Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito, con certa bizzarria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando per tutti i zig-zag serpentini sui quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse più una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi disattenti; il fisciù alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro; ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:

— Ma noi ci compromettiamo orribilmente, marchese! Si alzò ridendo, e si allontanò.


Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.

— Che bella sera! esclamò.

Velleda gli rivolse una rapida occhiata.


I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe della vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! — Povera Adele! se avesse potuto indovinarli!