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in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c’era un suono di musica, di frasi leggiadre, e di raso che frusciava — e in mezzo a tutto questo c’era una donna più bella, più elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.

Era un’aristocratica bellezza: l’occhio nero, superbo profondamente e voluttuosamente solcato, l’andatura, la voce, ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come foglie di magnolia, ondulanti in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell’avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. — Ella aveva 40 anni.

Allorchè si trovarono faccia a faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s’inchinavano graziosamente. — La contessa sorrise all’Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr’egli si allontanava.

Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c’era un che d’impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilata vasi colle rosee narici, mentre ella agitava il ventaglio chi-