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adorno di nastri e di fiori, alle testiere dei cavalli e agli occhielli del postiglione; i razzi delle ruote brillavano al sole come rapide ali di uccello; un sottil velo di polvere avvolgeva il legno elegante, imbottito di seta come un elegante scatolino, e la bella signora che vi stava mezzo sdraiata, appoggiando i piedi al sedile di faccia, con posa indolente, in mezzo ad una nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle; il velo azzurro del suo cappellino svolazzava su tutto quell’assieme leggiadro.

— La bella signora! esclamò ingenuamente l’Adelina che era venuta correndo.

— È la contessa Armandi: disse Velleda.

Alberto l’aveva seguita con un lungo sguardo.

Tornarono indietro pel desinare, e lo zio andava innanzi più lesto degli altri, dicendo che avea fame. Di tanto in tanto Alberto rimaneva pensieroso, e non rispondeva subito, rispondeva a sproposito alle interrogazioni e ai discorsi delle due ragazze, che sembravano festanti tutt’e due, a tavola parlò due o tre volte della contessa Armandi e dopo desinare andò a fumare in giardino.

Si sentiva gonfiare in petto i germi di tutte le forme dell’amore, come un rigoglìo di vita, come acri fiori di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo sorriso pudico, e delle lusinghe dei biondi capelli di Velleda, e della sua elegante civetteria — più in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell’avvenire ondeggiava vagamente la larva di un altro