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scitore, e allorchè la cuginetta gli corse incontro stendendogli le mani e salutandolo col suo più grazioso rossore, i capelli biondi, la veste di seta, e lo sguardo da regina dell’altra gli si gettarono, direi, alla testa, in un lampo. Povera Adele! se avesse potuto udire il ronzio di tutti quei calabroni inquieti che si destavano nella mente di Alberto, mentre ella credeva di fare una presentazione in regola, dicendo: — Mio cugino! la signorina Velleda!

La signorina Velleda fece una bella riverenza da ballo, ed Alberto se ne rammentò scrivendo il giorno stesso all’amico Gemmati: «Se avessi visto con quanta grazia inchinandosi spingeva indietro il suo vestito!»

Velleda andava innanzi, ghiocherellando sempre colla sua bacchettina a mo’ di frustino, un po’ da bambina capricciosa, un po’ da leggiadra civettuola. Allo svoltar di un viale scomparve.

Adele, che chiacchierava col cugino tutta giuliva, arrossì improvvisamente, ed Alberto se ne avvide.

— Che hai? le domandò.

— Il babbo non sa nulla del tuo arrivo.... cerco di vederlo.

Il babbo li vedeva benissimo dalla sua finestra, e si fregava le mani.

Al rammentarsi dello zio il giovane si fe’ scuro in viso, e pensò agli esami andati a monte. Ma lo zio che era il miglior zio del mondo, abbracciò teneramente il nipote come se costui non avesse delle palle nere sulla coscienza; anzi a tavola comparve un certo fiasco di