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il capo, mentre discorreva passava il guanto sulla criniera della sua cavalla; così com’era, col suo amazzone grigio, e nel suo grazioso atteggiamento, era assai leggiadra; la calèche era ovattata, riboccante di fiori, coi jockey ricamati e incipriati, immobili come statue, i cavalli irrequieti, dall’occhio e dal garretto teso. Una folla di curiosi s’era formata vicino a quel bel gruppo.
— Oh, chi vedo! esclamò tutt’a un tratto la signora Rigalli, non è il marchese Alberti quel laggiù, che ci arriva dall’India a cavallo del suo baio?
Adele si volse di soprassalto, e divenne bianca come la sua gorgierina di batista.
Alberti si avanzava al passo; il cavallo era impaziente, colle narici rosse, sbuffava, mordeva il freno bianco di schiuma, e lo scuoteva con bruschi movimenti; il cavaliere era calmo, serio, freddo, e avea la mano di ferro; volgeva gli occhi sulla folla sbadatamente, col sigaro in bocca, e avea l’occhio smorto, il pallore cadaverico, e l’impassibilità quasi tetra. Guardava quella festa come un defunto avrebbe potuto guardarla dalla tomba. Passando vicino alla calèche ci volse gli occhi a caso, la Rigalli lo chiamò col più grazioso sorriso, ed ei si trovò faccia a faccia con Adele; una fiamma rapida come un lampo passò per la prima volta dopo tanti anni su quelle pallide guance. Intanto la Rigalli diceva all’Adele:
— Mi permette che le presenti il marchese Alberti?
— Vuol presentarmi mio cugino? rispose Adele, che era ridivenuta calma e sorridente con un supremo sforzo di volontà e stese ad Alberto il pomo del frustino attraverso la calèche, come se gli stendesse la mano.