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svolazzavagli dinanzi agli occhi, ricalcitrò, e passò sbuffando, guardandola torvo, con le narici fumanti, e contrastando alla mano; Armandi volle assicurarlo: cavallo e cavaliere si incaponirono, s’imbizzarrirono, sbrigliando, impennandosi, spronando, e rinculando verso quella parte della strada ch’era tutta sossopra e sparsa di buche, come se il conte avesse di proposito deliberato di rompersi il collo; tutt’a un tratto il cavallo mise un piede in falso, cadde, tentò generosamente di rialzarsi con isforzi disperati, e infine, vinto dal dolore, si rovesciò senza mettere un nitrito, da bravo. Armandi era saltato abilmente in piedi fuor delle staffe, e cercò rianimare colla briglia e colla voce il povero animale che avea l’angoscia negli occhi, sollevava il capo e ricadeva. — Povero Falco! — gli diceva il conte. Infine, vedendo che non c’era proprio nulla da fare, raccomandò Falco agli operai che lavoravano sulla strada, promettendo di mandar subito dei soccorsi, e invece di tornare a piedi per la via fatta, che sarebbe stata troppo lunga, scese sulla riva in cerca di un battello, e si fece condurre per acqua alla sua villa.

La villa dalla parte del lago avea un cancello che aprivasi sul molo microscopico dov’erano ormeggiate le due barchette del conte. Un centinaio di passi più in là era la casetta del giardiniere, addossata al muro di cinta, tappezzata di gelsomini, e di cui il tetto rosso faceva un bel vedere sul verde-cupo dei grandi alberi del boschetto. Il conte andò a picchiare sui vetri della finestra col pomo del suo frustino, si fece aprire il can-