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sulla terrazza: il conte Armandi discorreva con altri due presso il camino; la signora Rigalli assediava il suo carabiniere sul canapè; la contessa era accanto alla tavola: dopo alcuni minuti di quelle ciarle scucite che avviano la conversazione, volse attorno una rapida occhiata, versò del caffè in una chicchera, e andò difilata verso la terrazza. Alberto stava colle spalle appoggiate alla balaustrata, e vedendo comparir l’Armandi nel vano luminoso del balcone, si rizzò di soprassalto; ella gli afferrò la mano e gli disse sottovoce, rapidamente con accento intraducibile:
— Adesso non v’è cosa che non farei per voi. Cosa volete che faccia? dite!
Ei le afferrò la mano, fissandola. — Così rimasero alcuni istanti zitti e palpitanti.
— Lo sapete che mio marito mi ucciderebbe?... Volete che mi faccia uccidere? Volete che mi perda per voi? diss’ella tremante e concitata. Volete?
In quel momento il conte avea finito di discorrere col suo interlocutore, e avvicinavasi alla terrazza: scostò la tenda, si fermò un po’ sulla soglia per abituare i suoi occhi alle tenebre, e scambiò qualche parola con Alberti. La contessa rientrò centellando tranquillamente il suo caffè, col più spensierato sorriso su tutta la persona. Passando vicino alla signora Rigalli e al Marteni, disse ridendo:
— Schiettamente, cara Virginia, vorreste essere un uomo, capitano, ferito, e decorato?
— Ma.... se non fossi quel che sono.... vorrei esserlo!