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Alberto scrollò le spalle e disse freddamente:
— Vuoi che me ne vada?
— Sì, sì, vattene! — e poscia, afferrandolo con impeto per un braccio. — No! non te ne andare!
E rimase a guardarlo avidamente, tenendolo sempre pel braccio, e gli occhi le si velarono.
— Come fa a non amarti, cotesta superbiosa?
Gli gettò le braccia al collo. — Ei che stava per partire tranquillamente, allorchè sentì avvinchiarsi da quelle braccia dimenticò la contessa.
Uscì dopo mezz’ora, fosco, stralunato, dispettoso, — la povera ragazza non ebbe il coraggio di trattenerlo. — Si fece sellare il cavallo, e volò alla villa Armandi.
Erano passate le due quando lasciato il cavallo si avviò a piedi verso la villa. Tutto era buio, soltanto alla finestra della camera della contessa c’era lume.
Quel lume l’accecava, l’affascinava, gli trafiggeva il cuore come una punta di ferro arroventato. Ei non avrebbe osato ridire tutti i pensieri che gli tempestavano in mente: c’era una specie di gelosia acre, che avea un pudore singolare; avrebbe ucciso la contessa colle sue mani piuttosto che rimproverarle le torture che ella gli faceva soffrire in quel momento — e stette ad assaporarle ad una ad una, sin quando quel lume si spense. L’indomani le scrisse:
«Mi volete a desinare oggi?»
Gli fu risposto con un invito del conte e della contessa Armandi.