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— Volete essere dei nostri a pranzo domani?
— Grazie.
— Rifiutate? diss’ella facendosi un po’ rossa.
— Sì.
— Non se ne parli altro.
Suonò il campanello e si fece recare il cestellino da ricamo.
— Si fermerà molto tempo il conte? domandò Alberto giocherellando col gomitolo.
— Un mese circa, sin che andremo a Belmonte; poscia sarà a Torino per la riapertura della Camera.
Alberto chinò la fronte sulla palma, e dopo una breve pausa disse piano:
— Sicchè... non ci vedremo sino a giugno?
— Come volete che vi riveda senza presentarvi a mio marito?
— È vero.
Il silenzio che seguì avea alcunchè d’imbarazzante. La contessa, tutta intenta al suo ricamo, riprese alfine:
— Ier sera so che avete fatto una grossa perdita al giuoco. Ho il diritto di parlarvene, perchè sono la vostra migliore amica. Ciò è irragionevole, mio caro.
— Avrei anche potuto vincere. Sono sfortunato, ecco tutto; rispose Alberto seccamente.
— Ebbene, abbiate giudizio anche per la fortuna che vi manca: non giocate.
— Lo volete?
— Ve ne prego.
— Non giocherò.