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— No. L’Emilia doveva anzi venire con noi, ma stamane m’ha scritto che ha cambiato idea. Vuol essere dei nostri?

— Grazie, non posso; e si allontanò almanaccando perchè l’Armandi in un biglietto di tre righe ci avesse cacciato anche la musica e la signora Rigalli.


Trovò la contessa nel suo salotto, sul suo canapè, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche; fu accolto col miglior sorriso, e fu presentato agli altri senza il menomo imbarazzo. Ella era perfettamente padrona di sè, piena di brio e disinvoltura — scherzò anzi coll’aria un po’ stralunata di lui — parlò di corse sul lago, di partite di piacere, delle avventure dei bagni. Un tale domandò del conte Armandi, ch’era ancora a Torino sebbene la sessione fosse chiusa da un pezzo.

— Verrà quanto prima, rispose la contessa, appena terminati non so quali lavori di non so qual commissione parlamentare — e rivolgendosi alla signora che aveva al fianco aggiunse sorridendo: — Quella benedetta politica è una rivale pericolosa.

Alberto ascoltava la sua voce, e guardava le sue belle mani, ornate da larghi manichini di trina, che ella tirava in su allorchè le cadevano lungo il braccio. Alle ultime parole di lei la fissò in viso; poscia arrossì, senza saper perchè, distolse gli occhi, e prese parte alla conversazione con vivacità nervosa, a sbalzi, con lunghe interruzioni che avrebbero grandemente sorpreso