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«Amico mio, diceva, verrete domani alle quattro? Avrò anche la signora Rigalli, e faremo della musica. Conto su di voi. Oggi sono a pranzo dai Corvetti.»
Il carattere era elegante, tracciato con mano sicura, la firma era per intero: «Emilia Armandi.»
Il povero giovane stette mezz’ora voltando e rivoltando fra le mani quel fogliolino profumato, e rileggendo quelle due righe così semplici, così chiare, che non riesciva a comprendere.
Ei passò tutto il giorno in una specie di sonnolenza e di sbalordimento, pensando a lei, a che cosa stesse facendo, a che cosa fosse accaduto, al perchè gli ordinasse di non vederla sino all’indomani, al come ella potesse aspettare sino a questo domani senza soffrire al par di lui. Trasaliva al ricordarsi con miracolosa precisione le parole di lei, il tono della sua voce, il profumo de’ suoi capelli; stava guardando il lago, quel medesimo lago, che cominciava a farsi bruno, e su cui le stelle cominciavano a scintillare. Fra il disordine delle sue idee ce n’era una più insistente delle altre: perchè ella gli avesse fatto promettere di buttarsi nel lago, e perchè poi non glielo avesse ordinato. Sapeva che non l’avrebbe obbedita, e che quel tale amore lo rendeva vile?
Il giorno dopo, avviandosi verso le quattro alla villa Armandi, incontrò la signora Rigalli che andava ad imbarcarsi insieme ad un’allegra brigata.
— Non va dalla contessa Armandi? le domandò con un po’ di sorpresa.