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XXXI.


Alberto s’incamminò lentamente andando alla ventura col sigaro in bocca, il viso pallido, l’occhio ardente e fisso dinanzi a sè, guardando macchinalmente il lago, i monti, la gente che incontrava. L’aria fresca del mattino facevagli dilatare i polmoni con forza, e sembrava infondergli un’esuberanza di vita. Il canto degli uccelli, i mille profumi dei campi, i primi raggi del sole, lo penetravano vagamente, sottilmente, con un’altra fisonomia, quasi gli appartenessero e fossero al mondo soltanto per lui, incarnandosi confusamente in una immagine fitta nel cervello, nel cuore, dinanzi agli occhi. Il suo pensiero era inerte o vertiginoso; tutti gli avvenimenti di quella notte si urtavano confusamente nella sua memoria fra di loro, e l’abbagliavano colla luminosa intermittenza della luce elettrica. Non avrebbe saputo esprimere quel che provava, se era felice oppur