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perchè certi forestieri che visitavano il collegio avevano mostrato di conoscerlo come il figliuolo della marchesa Alberti, e poi aveva arrossito di aver arrossito. Sua madre non gli parlava mai del babbo. — Di tutte coteste cose si rammentò più tardi.

Le prime inquietudini del cuore gettarono nella sua mente il germe funesto dello esame.


A 16 anni Alberto era un giovinetto alto e delicato, coi capelli biondi, il profilo aristocratico, un po’ freddo e duro, il pallore marmoreo del padre, e i grand’occhi azzurri, il sorriso affascinante e mobilissimo della madre — cuore aperto a due battenti, immaginazione vivace, affettuosa, ma inquieta, vagabonda, diremmo nervosa, ingegno più acuto che penetrante, analitico per inquietudine e per debolezza di carattere — un ingegno che vi sgusciava dalle mani ad ogni istante — diceva il suo professore di filosofia — atto a fargli cercare la decomposizione dell’unità, o a dargli i peggiori guai della vita quando il cuore si fosse mescolato della bisogna. Egli aveva preso di buon’ora l’abitudine di pensare, come tutti i solitari. Più tardi ebbe un amico, Gemmati, pel quale ebbe tenerezze e gelosie d’amante, sino a tenergli il broncio quando seppe che sorrideva alla figliuola del barbiere che stava di faccia. — Molto tempo dopo, e in circostanze assai diverse, mentre stava seduto accanto al fuoco, cogli occhi fissi sulla fiamma, e le labbra contratte sul sigaro spento, il ricordo di quella ridicola gelosia della sua infanzia gli balenò in