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Alberto avea tal’alta idea di Velleda, che avrebbe creduto oltraggiarla mortalmente se avesse confessate le ingiustificabili ma invincibili tentazioni di gelosia che l’assalivano di tanto in tanto. Il Metelliani era così ignobile e brutto, che egli non avrebbe giammai creduto possibile un pensiero di Velleda per quell’uomo di cui era geloso. Don Ferdinando era divenuto intanto uno dei più assidui frequentatori del villino Flora. La signora Manfredini trovava sempre modo di far cadere nel discorso questo fatto, e Velleda non poteva fare a meno di esserne lusingata internamente, poichè Don Ferdinando era l’idolo della più alta società, e le più nobili dame erano gelose di cotesta preferenza. Metelliani possedeva quella disinvoltura da gran signore, che adattasi egualmente alla impertinenza e alle belle maniere; l’omaggio rispettoso di quell’uomo superbo e sprezzante verso tutti gli altri, dovea lusingare enormemente l’amor proprio della fanciulla vanitosa; ella avea finito per ringraziamelo con una parola graziosa, con un sorriso, con un’occhiata, sempre però con quell’ombrosa riservatezza che era la sua più bella attrattiva. Alberti soffriva come un dannato, arrossiva e indispettivasi contro se stesso, ma senza potersi vincere. Volere o non volere, era lui solo che in mezzo a tanti sorrisi rappresentasse la parte di uggioso, e la mamma Manfredini glielo faceva intendere in tutti i modi; la figliuola ch’era superbetta, si mordeva le labbra senza dir nulla.