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rossì leggermente. Nell’angolo dov’era Alberti si udì un rumore di porcellana che rompevasi; nessuno se ne accorse, o ci abbadò: la signora più vicina non volse nemmeno il capo; soltanto Velleda, dall’altra estremità della sala, volse un’occhiata così rapida e sfolgorante verso quel rumore, che De Marchi s’aggiustò la lente sull’occhio, e guardò anche lui.
La signorina Manfredini continuò a sgusciare fra la folla, briosa e gentile. Infine passò accanto ad Alberto, senza una nube sulla fronte, senza volgere gli occhi su di lui, e gli gettò sommessamente questa parola:
— Seguitemi.
Alberti andò dietro di lei nell’altra sala, e, temendo di far scorgere la sua agitazione, si mise a guardare con grande attenzione il giuoco che non capiva. Poco dopo si trovò vicina la Velleda, disinvolta, scherzando coi giocatori e con coloro che stavano a veder giocare. Avvedendosi di Alberti gli disse: — Non fuma? — e andò a prendergli un sigaro da un astuccio intagliato. — Passate di là senza farvi scorgere — soggiunse così piano che appena egli potè udirla.
Quell’altra stanza era un piccolo gabinetto da lavoro che metteva da una parte nella camera della madre, e dall’altra in quella della signorina Manfredini. C’era un grande scrittoio fra le due finestre, un canapè di faccia, e un piccolo tavolino accanto; fra il canapè e lo scrittoio aprivasi l’uscio della camera di Velleda. La stanza era poco illuminata da una sola lucerna a ventola posata sul tavolino. Alberto aspettò alcuni istanti,