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le si avvicinò con premura appena la vide seduta, e si chinò verso di lei per dirle qualche cosa. Alberto udì ch’ella rispondeva freddamente:
— Grazie, signore. Sono stanca.
— Non balli più? domandò la contessa.
— No, mamma: vorrei già essere a casa.
La mamma rivolse su di lei uno sguardo penetrante, e disse: — Andiamo pure.
Il giovane diplomatico accompagnò le due signore. Mentre Alberto stava per partire anche lui, incontrò la contessa Armandi.
— Oh! Lei qui! Lo credeva ancora a Belmonte. Va via anche lei? M’accompagni sino alla mia carrozza in tal caso...
Gli porse il suo mantello ovattato, il suo cappuccio, il suo boa, perchè l’aiutasse un po’; e andava chiacchierando mentre il maldestro cavaliere imbarazzavasi fra tutti quegli arnesi: — O come va che trovasi qui e solo? e la sua cuginetta? — Quest’altro capo qui, sulla spalla. — È andato in fumo dunque? — Avvolga bene il boa, dicono che fa freddo. Grazie, così! — Per colpa sua, ne son certa; gliel’aveva predetto, si rammenta? — Tiri un po’ in su il cappuccio. — Non speravo d’incontrarla: che fortuna!
— Come va che non l’ho vista al ballo?
— Era così occupato! Ma non me l’ho a male, veh!
In questo momento rientrava il giovanotto che avea accompagnato le signore Manfredini, e salutò profondamente l’Armandi.