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220 | Don Candeloro e C.i |
tutt’e due! — Niscima piangeva, sua moglie piangeva, strappandosi i capelli, fosse amore, o fosse timore della giustizia. — O compare, che giornata spuntò oggi per tutti noi! — O che fuoco ci ho qui dentro, compare bello! — E il giudice istruttore era presente; e la stanza era piena di vicini che sapevano e non sapevano; e il mulo, legato lì fuori, non poteva parlare.
Matteo Sbarra, col singhiozzo alla gola, stava zitto anche lui, dinanzi al giudice, dinanzi ai testimonii, dinanzi al prete che gli dava l’assoluzione dei suoi peccati. Guardava la comare, guardava il compare, cogli occhi torbidi, dove forse passava già la visione della vita eterna. Ah! le mani di lei, che gli asciugavano adesso col fazzoletto il sangue e il sudore della morte! E le mani dell’amico che gli rassettavano il guanciale sotto il capo, lì, nello stesso letto matrimoniale dove l’aveva tratto in agguato — a colpo sicuro, se era vero che la donna ve l’aveva stretto altre volte fra le braccia, poichè Niscima sapeva bene che il maschio della selvaggina vi torna di nuovo sotto il fucile, al richiamo della femmina, fosse ferito e grondante sangue. — La vicina Anna aveva udito dietro l’uscio il rumore della lotta brusca