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116 | Don Candeloro e C.i |
tanta grazia divina recalcitrava egli stesso, semplice frate laico, senza neppure gli ordini sacri. Resisteva alla tentazione, si confessava indegno, faceva il sordo o lo scemo, arrivava a tapparsi le orecchie insino, quando i poveri giuocatori gli correvano dietro supplicando: — Per la santa tonaca che portate! — Per l’anima dei vostri morti! — e per questo, e per quest’altro. — Due parole sole, e ci togliete dai guai! — Intanto i numeri che gli ballavano dentro, e le dita stesse che si tradivano e accennavano il terno, senza sua voglia, soltanto al modo di lisciare la barba e di far segno: — zitto! — Chi sapeva intendere poi e cavarne il terno ci pigliava l’ambo almeno. E l’elemosine fioccavano.
Il padre guardiano, uomo rozzo all’antica, prese infine Vito Scardo a quattr’occhi, e gli fece una bella lavata di capo: — A che giuoco giuochiamo? Che significa questa faccenda? — Lui a testa bassa, colle mani in croce nei maniconi, rispose tutto compunto che significava che il Signore lo chiamava in religione, e se non lo lasciavano entrare in noviziato sarebbe andato a fare l’eremita in cima a una montagna. Fra Giuseppe Maria capì il latino. — A fare il santo per conto tuo, eh? E tirar l’acqua al tuo