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ritratto d’Antonfrancesco. Ritrasse ancora in questo medesimo tempo Messer Pietro Aretino, e lo fece sì fatto che, oltre al somigliarlo, è pittura stupendissima per vedervisi la differenza di cinque o sei sorti di neri che egli ha addosso: velluto, raso, ermisino, damasco e panno, et una barba nerissima sopra quei neri, sfilata tanto bene che più non può essere il vivo e naturale. Ha in mano questo ritratto un ramo di lauro et una carta dentrovi scritto il nome di Clemente Settimo e due maschere inanzi, una bella per Virtù e l’altra brutta per il Vizio. La quale pittura Messer Pietro donò alla patria sua, et i suoi cittadini l’hanno messa nella sala publica del loro consiglio, dando così onore alla memoria di quel loro ingegnoso cittadino e ricevendone da lui non meno. Dopo ritrasse Sebastiano Andrea Doria, che fu nel medesimo modo cosa mirabile, e la testa di Baccio Valori fiorentino, che fu anch’essa bella quanto più non si può credere. In questo mentre, morendo frate Mariano Fetti, frate del Piombo, Sebastiano ricordandosi delle promesse fattegli dal detto vescovo di Vasona, maestro di casa di Sua Santità, chiese l’ufficio del Piombo, onde, se bene anco Giovanni da Udine, che tanto ancor egli aveva servito Sua Santità in minoribus e tuttavia la serviva, chiese il medesimo ufficio; il Papa, per i prieghi del vescovo e perché così la virtù di Sebastiano meritava, ordinò che esso Bastiano avesse l’ufficio e sopra quello pagasse a Giovanni da Udine una pensione di trecento scudi. Laonde Sebastiano prese l’abito del frate e subito per quello si sentì variare l’animo. Per che, vedendosi avere il modo di potere sodisfare alle sue voglie senza colpo di pennello, se ne stava riposando, e le male spese notti et i giorni affaticati ristorava con gli agi e con l’entrate. E quando pure aveva a fare una cosa si riduceva al lavoro con una passione che pareva andasse alla morte. Da che si può conoscere quanto s’inganni il discorso nostro e la poca prudenza umana, che bene spesso, anzi il più delle volte, brama il contrario di ciò che più ci fa di mestiero, e credendo segnarsi (come suona il proverbio tosco) con un dito, si dà nell’occhio. È comune opinione degl’uomini che i premii e gl’onori accendino gl’animi de’ mortali agli studii di quell’arti che più veggiono essere rimunerate, e che per contrario gli faccia stracurarle et abbandonarle il vedere che coloro, i quali in esse s’affaticano, non siano dagl’uomini, che possono, riconosciuti. E per questo gl’antichi e moderni insieme biasimano quanto più sanno e possono que’ prìncipi che non sollievano i virtuosi di tutte le sorti, e non dànno i debiti premii et onori a chi virtuosamente s’affatica. E come che questa regola per lo più sia vera si vede pur tuttavia, che alcuna volta la liberalità de’ giusti e magnanimi prìncipi operare contrario effetto, poiché molti sono di più utile e giovamento al mondo in bassa e mediocre fortuna, che nelle grandezze et abbondanze di tutti i beni non sono. Et a proposito nostro, la magnificenza e liberalità di Clemente Settimo, a cui serviva Sebastiano viniziano, eccellentissimo pittore, rimunerandolo troppo altamente, fu cagione che egli, di sollecito et industrioso, divenisse infingardo e negligentissimo; e che dove, mentre durò la gara fra lui e Raffaello da Urbino e visse in povera fortuna, si affaticò di continuo, fece tutto il contrario poi che egli ebbe da contentarsi. Ma comunche sia, lasciando nel giudizio de’ prudenti prìncipi il considerare come, quando,