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al suo tempo secondo. Per il che non restò di vedere sotto terra ciò che poté in Roma di grotte antiche et infinitissime volte. Stette a Tivoli molti mesi nella villa Adriana disegnando tutti i pavimenti e grotte, che sono in quella sotto e sopra terra. E sentendo che a Pozzuolo, nel Regno, vicino a Napoli dieci miglia, erano insieme muraglie piene di grottesche, di rilievo, di stucchi e dipinte, antiche, tenute bellissime, attese parecchi mesi in quel luogo a cotale studio. Né restò che in Campana, strada antica in quel luogo, piena di sepolture antiche, ogni minima cosa non disegnasse; et ancora al Trullo, vicino alla marina, molti di quei tempii e grotte sopra e sotto ritrasse. Andò a Baia et a Mercato di Sabato, tutti luoghi pieni d’edificii guasti e storiati, cercando di maniera che con lunga et amorevole fatica in quella virtù crebbe infinitamente di valore e di sapere. Ritornato poi a Roma, quivi lavorò molti mesi et attese alle figure, parendogli che di quella professione egli non fosse tale, quale nel magisterio delle grottesche era tenuto. E poi che era venuto in questo desiderio, sentendo i romori che in tale arte avevano Lionardo e Michelagnolo per li loro cartoni fatti in Fiorenza, subito si mise per andare a Fiorenza; e vedute l’opere, non gli parve poter fare il medesimo miglioramento, che nella prima professione aveva fatto. Laonde egli ritornò a lavorare alle sue grottesche. Era allora in Fiorenza Andrea di Cosimo de’ Feltrini pittor fiorentino, giovane diligente, il quale raccolse in casa il Morto, e lo trattenne con molto amorevoli accoglienze. E piaciutoli i modi di tal professione, volto egli ancora l’animo a quello esercizio, riuscì molto valente, e più del Morto fu col tempo raro et in Fiorenza molto stimato come si dirà di sotto. Per ch’egli fu cagione che il Morto dipignesse a Pier Soderini, allora gonfaloniere, la camera del palazzo a quadri di grottesche, le quali bellissime furono tenute; ma oggi, per racconciar le stanze del duca Cosimo, sono state ruinate e rifatte. Fece a maestro Valerio frate de’ Servi, un vano d’una spalliera che fu cosa bellissima; e similmente per Agnolo Doni in una camera molti quadri, di variate e bizzarre grottesche. E perché si dilettava ancora di figure, lavorò alcuni tondi di Madonne, tentando se poteva in quelle divenir famoso, come era tenuto. Perché venutogli a noia lo stare a Fiorenza, si trasferì a Vinegia. E con Giorgione da Castelfranco, ch’allora lavorava il Fondaco de’ tedeschi, si mise ad aiutarlo, facendo gli ornamenti di quella opera. E così in quella città dimorò molti mesi, tirato dai piaceri e dai diletti che per il corpo vi trovava. Poi se ne andò nel Friuli a fare opere, né molto vi stette, che faccendo i signori viniziani soldati, egli prese danari; e senza avere molto esercitato quel mestiero, fu fatta capitano di dugento soldati. Era allora lo essercito de’ Viniziani condottosi a Zara di Schiavonia, dove appiccandosi un giorno una grossa scaramuccia, il Morto desideroso d’acquistar maggior nome in quella professione, che nella pittura non aveva fatto, andando valorosamente innanzi e combattendo in quella baruffa, rimase morto, come nel nome era stato sempre, d’età d’anni 45. Ma non sarà già mai nella fama morto, perché coloro che l’opere della eternità nelle arti manovali esercitano e di loro lasciano memoria dopo la morte, non possono per alcun tempo già mai sentire la morte delle fatiche loro. Perciò che gli scrittori grati fanno fede delle virtù di essi. Però molto deverebbono gli artefici nostri spronar se stessi