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però si andò temporeggiando in fare i cartoni, per farla finire a Raffaello dal Borgo et altri, tanto ch’ella non si fece. In quel medesimo tempo, essendo persona cortese, fece molti disegni in Arezzo e fuori, per pitture e fabriche: come ai rettori della fraternita quello della cappella che è a’ piè di piazza, dove è oggi il volto santo, per i quali aveva disegnato una tavola che s’aveva a porre di sua mano nel medesimo luogo, dentro una Nostra Donna che ha sotto il manto un popolo. Il quale disegno, che non fu messo in opera, è nel nostro libro insieme con molti altri bellissimi di mano del medesimo. Ma tornando all’opera ch’egli doveva fare alla Madonna delle Lacrime, gl’entrò mallevadore di questa opera Giovanni Antonio Lappoli aretino et amico suo fidatissimo, che con ogni modo di servitù gli usò termini di amorevolezza. Ma l’anno 1530, essendo l’assedio intorno a Fiorenza, et essendo gli Aretini, per la poca prudenza di papa Altoviti, rimasi in libertà, essi combatterono la cittadella e la mandarono a terra. E perché que’ popoli mal volentieri vedevano i Fiorentini, il Rosso non si volle fidar di essi e se n’andò al Borgo San Sepolcro, lasciando i cartoni et i disegni dell’opera serrati in Cittadella: perché quelli che a Castello gli aveva allogato la tavola, volsero che la finisse; e per il male che avea avuto a Castello, non volle ritornarvi, e così al Borgo finì la tavola loro. Né mai a essi volse dare allegrezza di poterla vedere: dove figurò un popolo et un Cristo in aria adorato da quattro figure, e quivi fece Mori, Zingani e le più strane cose del mondo; e da le figure in fuori, che di bontà son perfette, il componimento attende a ogni altra cosa, che all’animo di coloro che gli chiesero tale pittura. In quel medesimo tempo, che tal cosa faceva, disotterrò de’ morti nel vescovado ove stava, e fece una bellissima notomia. E nel vero era il Rosso studiosissimo delle cose dell’arte, e pochi giorni passavano che non disegnasse qualche nudo di naturale. Ora, avendo egli sempre avuto capriccio di finire la sua vita in Francia e torsi, come diceva egli, a una certa miseria e povertà nella quale si stanno gli uomini che lavorano in Toscana e ne’ paesi dove sono nati, deliberò di partirsi. Et avendo a punto, per comparire più pratico in tutte le cose et essere universale, apparata la lingua latina, gli venne occasione d’affrettare maggiormente la sua partita, perciò che, essendo un giovedì santo, quando si dice matutino la sera, un giovinetto aretino suo creato in chiesa, e facendo con un moccolo acceso e con pece greca alcune vampe e fiamme di fuoco, mentre si facevano, come si dice, le tenebre, fu il putto da alcuni preti sgridato et alquanto percosso. Di che avedutosi il Rosso, al quale sedeva il fanciullo a canto, si rizzò con mal animo alla volta del prete. Perché levatosi il rumore, né sapendo alcuno onde la cosa venisse, fu cacciato mano alle spade contra il povero Rosso, il quale era alle mani con i preti. Onde egli datosi a fuggire, con destrezza si ricoverò nelle stanze sue, senza essere stato offeso o raggiunto da nessuno. Ma tenendosi per ciò vituperato, finita la tavola di Castello, senza curarsi del lavoro d’Arezzo, o del danno che faceva a Gioan Antonio suo mallevadore, avendo avuto più di centocinquanta scudi, si partì di notte, e facendo la via di Pesaro, se n’andò a Vinezia. Dove essendo da Messer Pietro Aretino trattenuto, gli disegnò in una carta, che poi fu stampata, un Marte che dorme con Venere e gl’Amori, e le Grazie che lo spogliano e gli traggono la corazza.