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le mani piene d’uve. Il guardiano, trovando scaricarsi la pergola e non sapendo da chi, dubitando de’ topi, mise l’aguato a essa, e visto che il bertuccione del Rosso giù scendeva, tutto s’accese d’ira, e presa una pertica per bastonarlo, si recò verso lui a due mani. Il bertuccione, visto che se saliva ne toccherebbe, e se stava fermo il medesimo, cominciò salticchiando a ruinargli la pergola, e fatto animo di volersi gettare addosso al frate, con ambedue le mani prese l’ultime traverse che cingevano la pergola; in tanto menando il frate la pertica, il bertuccione scosse la pergola per la paura, di sorte e con tal forza, che fece uscire delle buche le pertiche e le canne: onde la pergola et il bertuccione ruinarono addosso al frate, il quale gridando misericordia, fu da Batistino e da gl’altri tirata la fune, et il bertuccion salvo rimesso in camera, perché discostatosi il guardiano et a un suo terrazzo fattosi, disse cose fuor della messa; e con còlora e mal animo e n’andò all’ufficio degli Otto, magistrato in Fiorenza molto temuto. Quivi posta la sua querela e mandato per il Rosso, fu per motteggio condannato il bertuccione a dovere un contrapeso tener al culo, acciò che non potesse saltare come prima faceva su per le pergole. Così il Rosso fatto un rullo che girava con un ferro, quello gli teneva, acciò che per casa potesse andare, ma non saltare per l’altrui come prima faceva. Per che, vistosi a tal supplizio condennato, il bertuccione parve che s’indovinasse il frate essere stato di ciò cagione, onde ogni dì s’essercitava saltando di passo in passo con le gambe e tenendo con le mani il contrapeso, e così posandosi spesso al suo disegno pervenne. Perché, sendo un dì sciolto per casa, saltò a poco a poco di tetto in tetto, su l’ora che il guardiano era a cantare il vespro, e pervenne sopra il tetto della camera sua. E quivi lasciato andare il contrapeso, vi fece per mezza ora un sì amorevole ballo, che né tegolo né coppo vi restò che non rompesse. E tornatosi in casa, si sentì fra tre dì per una pioggia le querele del guardiano. Avendo il Rosso finito l’opere sue, con Batistino et il bertuccione s’inviò a Roma, et essendo in grandissima aspettazione l’opre sue, erano oltre modo desiderate, essendosi veduti alcuni disegni fatti per lui, i quali erano tenuti maravigliosi, atteso che il Rosso divinissimamente e con gran pulitezza disegnava. Quivi fece nella Pace sopra le cose di Raffaello un’opera, della quale non dipinse mai peggio a’ suoi giorni, né posso imaginare onde ciò procedesse, se non da questo, che non pure in lui, ma si è veduto anco in molti altri. E questo (il che pare cosa mirabile et occulta di natura) è che chi muta paese o luogo, pare che muti natura, virtù, costumi et abito di persona, in tanto che tallora non pare quel medesimo, ma un altro e tutto stordito e stupefatto. Il che poté intervenire al Rosso nell’aria di Roma, e per le stupende cose che egli vi vide d’architettura e scultura, e per le pitture e statue di Michelagnolo, che forse lo cavarono di sé. Le quali cose fecero anco fuggire, senza lasciar loro alcuna cosa operare in Roma, fra’ Bartolomeo di S. Marco et Andrea del Sarto. Tuttavia, qualunche si fusse di ciò la cagione, il Rosso non fece mai peggio; e da vantaggio è quest’opera [a] paragone di quelle di Raffaello da Urbino. In questo tempo fece al vescovo Tornabuoni amico suo un quadro d’un Cristo morto, sostenuto da due Angeli, che oggi è appresso agli eredi di monsignor Della Casa, il quale fu una bellissima impresa. Fece al Baviera, in disegni di stampe, tutti gli dèi, intagliati poi da Giacopo Caraglio, quando Saturno si