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a Spoglia Cristo, la quale, fra molte che ne sono in quella città, è tenuta bellissima; bene è vero ch’ella fu dal Cronaca ringrandita a proporzione del palazzo, acciò facesse proporzionato fine et anche col suo agetto tetto a quel palazzo, e così l’ingegno del Cronaca seppe servirsi delle cose d’altri e farle quasi diventar sue. Il che non riesce a molti, perché il fatto sta non in aver solamente ritratti e’ disegni di cose belle, ma in saperle accommodare secondo che è quello a che hanno a servire, con grazia, misura, proporzione e convenienza. Ma quanto fu e sarà sempre lodata questa cornice del Cronaca, tanto fu biasimata quella che fece nella medesima città al palazzo de’ Bartolini Baccio d’Agnolo, il quale pose sopra una facciata piccola e gentile di membra, per imitare il Cronaca, una gran cornice antica misurata a punto dal frontespizio di Monte Cavallo, ma tornò tanto male, per non avere saputo con giudizio accommodarla, che non potrebbe star peggio e pare sopra un capo piccino una gran berretta. Non basta agl’artefici, come molti dicono, fatto ch’egli hanno l’opere, scusarsi con dire: elle sono misurate a punto dall’antico e sono cavate da’ buoni maestri, atteso che il buon giudizio e l’occhio più giuoca in tutte le cose, che non fa la misura de le seste. Il Cronaca dunque condusse la detta cornice con grande arte, insino al mezzo intorno intorno a quel palazzo, col dentello et uovolo, e da due bande la finì tutta, contrapesando le pietre in modo perché venissino bilicate e legate, che non si può veder cosa murata meglio, né condotta con più diligenza a perfezzione. Così anche tutte l’altre pietre di questo palazzo sono tanto finite e ben commesse ch’elle paiono non murate, ma tutte d’un pezzo. E perché ogni cosa corrispondesse fece fare per ornamento del detto palazzo ferri bellissimi per tutto e le lumiere che sono in su’ canti, e tutti furono da Niccolò Grosso Caparra, fabro fiorentino, con grandissima diligenza lavorate. Vedesi in quelle lumiere maravigliose le cornici, le colonne, i capitegli e le mensole saldate di ferro con maraviglioso magistero. Né mai ha lavorato moderno alcuno di ferro machine sì grandi e sì difficili con tanta scienza e pratica. Fu Niccolò Grosso persona fantastica e di suo capo, ragionevole nelle sue cose e d’altri, né mai voleva di quel d’altrui. Non volse mai far credenza a nessuno de’ suoi lavori, ma sempre voleva l’arra. E per questo Lorenzo de’ Medici lo chiamava il Caparra e da molti altri ancora per tal nome era conosciuto. Egli aveva appiccato alla sua bottega una insegna, ne la quale erano libri ch’ardevano; per il che, quando uno gli chiedeva tempo a pagare, gli diceva: "Io non posso, perché i miei libri abbrucciano e non vi si può più scrivere debitori". Gli fu dato a fare, per i signori Capitani di parte Guelfa, un paio d’alari, i quali avendo egli finiti, più volte gli furono mandati a chiedere. Et egli di continuo usava dire: "Io sudo e duro fatica su questa encudine e voglio che qui su mi siano pagati i miei danari". Per che essi di nuovo rimandorno per il lor lavoro et a dirgli che per i danari andasse che subito sarebbe pagato, et egli ostinato rispondeva che prima gli portassero i danari. Laonde il proveditore venuto in collera, perché i capitani gli volevano vedere, gli mandò dicendo ch’esso aveva avuto la metà dei danari e che mandasse gli alari che del rimanente lo sodisfarebbe. Per la qual cosa il Caparra, avvedutosi del vero, diede al donzello uno alar solo, dicendo: "Te’ porta questo