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PIETRO DELLA FRANC. 355

le fece ritrare, per avere l’effigie di coloro che tutti furono gran personaggi, perchè fra essi era Niccolò Fortebraccio, Carlo Settimo re di Francia, Antonio Colonna principe di Salerno, Francesco Carmignuola, Giovanni Vitellesco, Bessarione cardinale, Francesco Spinola, Battista da Canneto; i quali tutti ritratti furono dati al Giovio da Giulio Romano discepolo et erede di Raffaello da Urbino, e dal Giovio posti nel suo museo a Como. In Milano, sopra la porta di S. Sepolcro, ho veduto un Cristo morto di mano del medesimo, fatto in iscorto; nel quale, ancora che tutta la pittura non sia più che un braccio d’altezza, si dimostra tutta la lunghezza dell’impossibile, fatta con facilità e con giudizio. Sono ancora di sua mano in detta città, in casa del marchesino Ostanesia, camere e loggie con molte cose lavorate da lui con pratica e grandissima forza negli scorti delle figure. E fuori di porta Versellina, vicino al castello, dipinse a certe stalle oggi rovinate e guaste, alcuni servidori che stregghiavano cavalli, fra i quali n’era uno tanto vivo e tanto ben fatto, che un altro cavallo tenendolo per vero, gli tirò molte coppie di calci. Ma tornando a Piero della Francesca, finita in Roma l’opera sua, se ne tornò al Borgo, essendo morta la madre; e nella Pieve fece a fresco dentro alla porta del mezzo, due Santi, che sono tenuti cosa bellissima. Nel convento de’ frati di S. Agostino dipinse la tavola dell’altar maggiore, che fu cosa molto lodata, et in fresco lavorò una Nostra Donna della Misericordia in una Compagnia, o vero, come essi dicono, Confraternita; e nel Palazzo de’ Conservadori una Resurezzione di Cristo, la quale è tenuta dell’opere che sono in detta città e di tutte le sue, la migliore. Dipinse a S. Maria di Loreto, in compagnia di Domenico da Vinegia il principio d’un’opera nella volta della sagrestia; ma perchè temendo di peste, la lasciarono imperfetta, ella fu poi finita da Luca da Cortona, discepolo di Piero, come si dirà al suo luogo. Da Loreto venuto Piero in Arezzo, dipinse per Luigi Bacci cittadino aretino in S. Francesco la loro capella dell’altar maggiore, la volta della quale era già stata cominciata da Lorenzo di Bicci, nella quale opera sono storie della croce, da che i figliuoli d’Adamo, sotterrandolo, gli pongono sotto la lingua il seme dell’albero, di che poi nacque il detto legno; insino alla esaltazione di essa croce, fatta da Eraclio imperadore, il quale portandola in su la spalla a piedi e scalzo, entra con essa in Ierusalem; dove sono molto belle considerazioni e attitudini degne d’esser lodate, come, verbigrazia, gl’abiti delle donne della reina Saba, condotti con maniera dolce e nuova; molti ritratti di naturale antichi e vivissimi; un ordine di colonne corinzie divinamente misurate; un villano che, appoggiato con le mani in su la vanga, sta con tanta prontezza a udire parlare Santa Lena, mentre le tre croci si disotterrano, che non è possibile migliorarlo; il morto ancora è benissimo fatto, che al toccar della croce resuscita; e la letizia similmente di Santa Lena, con la maraviglia de’ circostanti che si inginocchiano ad adorare. Ma sopra ogni altra considerazione e d’ingegno e d’arte, è lo avere dipinto la notte et un Angelo in iscorto che, venendo a capo all’ingiù a portare il segno della vittoria a Gostantino che dorme in un padiglione guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, gl’armati e tutti i dintorni, con grandissima discrezione: per che Pietro fa conoscere in questa oscurità quanto