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FILIPPO BRUN. 307

di mano di diversi maestri, tenuta cosa notabile in que’ tempi; e che nel passar poi da Cortona entrò in Pieve, e vide un pilo antico bellissimo dove era una storia di marmo, cosa allora rara non essendosi disotterrata quella abbondanza che si è fatta ne’ tempi nostri, e così seguendo Donato il modo che aveva usato quel maestro a condurre quell’opera, e la fine che vi era dentro, insieme con la perfezzione e bontà del magisterio, accese sì Filippo di una ardente volontà di vederlo, che così come egli era, in mantello, in cappuccio et in zoccoli, senza dir dove andasse, si partì da loro a piedi e si lasciò portare a Cortona dalla volontà et amore ch’e’ portava all’arte. E veduto e piaciutogli il pilo, lo ritrasse con la penna in disegno; e con quello tornò a Fiorenza, senza che Donato o altra persona si accorgesse che fusse partito, pensando che e’ dovesse disegnare o fantasticare qualcosa. Così tornato in Fiorenza li mostrò il disegno del pilo, da lui con pazienza ritratto; per il che Donato si maravigliò assai, vedendo quanto amore Filippo portava all’arte. Stette poi molti mesi in Fiorenza, dove egli faceva segretamente modelli et ingegni, tutti per l’opera della cupola, stando tuttavia con gli artefici in su le baie; chè allora fece egli quella burla del Grasso e di Matteo, et andando bene spesso per suo diporto ad aiutare a Lorenzo Ghiberti a rinettar qualcosa in su le porte. Ma toccoli una mattina la fantasia, sentendo che si ragionava del far provisione di ingegneri che voltassino la cupola, si ritornò a Roma, pensando con più riputazione avere a esser ricerco di fuora che non arebbe fatto stando in Fiorenza. Laonde, trovandosi in Roma e venuto in considerazione l’opera e l’ingegno suo acutissimo, per aver mostro ne’ ragionamenti suoi quella sicurtà e quello animo che non avevasi trovato negli altri maestri, i quali stavono smarriti insieme con i muratori, perdute le forze, e non pensando poter mai trovar modo da voltarla, nè legni da fare una travata che fusse sì forte che regesse l’armadura et il peso di sì grande edifizio, deliberati vederne il fine, scrissono a Filippo a Roma, con pregarlo che venisse a Fiorenza. Et egli, che non aveva altra voglia, molto cortesemente tornò. E ragunatosi a sua venuta l’ufizio delli Operai di S. Maria del Fiore et i Consoli dell’Arte della Lana, dissono a Filippo tutte le difficultà, da la maggiore a la minore, che facevano i maestri, i quali erano in sua presenza nella udienza insieme con loro, per il che Filippo disse queste parole: "Signori Operai, e’ non è dubbio che le cose grandi hanno sempre nel condursi difficultà, e se niuna n’ebbe mai, questa vostra l’ha maggiore che voi per avventura non avisate. Perciò che io non so che neanco gl’antichi voltassero mai una volta sì terribile come sarà questa, et io, che ho molte volte pensato all’armadure di dentro e di fuori, e come si sia, per potervi lavorare sicuramente, non mi sono mai saputo risolvere; mi sbigottisce non meno la larghezza, che l’altezza dell’edifizio; perciò che se ella si potesse girar tonda, si potrebbe tenere il modo che tennero i Romani nel voltare il Panteon di Roma, cioè la Ritonda, ma qui bisogna seguitare l’otto facce et entrare in catene et in morse di pietre, che sarà molto difficile. Ma ricordandomi che questo è tempio sacrato a Dio et alla Vergine, mi confido che, faccendosi in memoria sua, non mancherà di infondere il sapere dove non sia et agiugnere le forze e la sapienza e l’ingegno, a chi sarà autore di tal cosa. Ma che posso