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306 SECONDA PARTE

quale molto si usava nel suo tempo. Et aveva in sè duoi concetti grandissimi: l’uno era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli ritrovandola, non lasciare manco memoria di sè, che fatto si aveva Cimabue e Giotto; l’altro di trovar modo, se e’ si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza: le difficoltà della quale avevano fatto sì che, dopo la morte di Arnolfo Lapi, non ci era stato mai nessuno a cui fusse bastato l’animo, senza grandissima spesa d’armadure di legname, poterla volgere. Non conferì però mai questa sua invenzione a Donato, nè ad anima viva; nè restò che in Roma tutte le difficultà che sono nella Ritonda egli non considerasse, sì come si poteva voltare. Tutte le volte nell’antico aveva notato e disegnato, e sopra ciò del continuo studiava. E se per avventura eglino avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizii, eglino mettevano opere e gli facevano cavare, per toccare il fondo. Per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le strade, che andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro, credendo i popoli ch’e’ fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori; e di ciò fu cagione l’avere eglino trovato un giorno una brocca antica di terra, piena di medaglie. Vennero manco a Filippo i denari, e si andava riparando con il legare gioie a orefici suoi amici che erano di prezzo; e così si rimase solo in Roma, perchè Donato a Fiorenza se ne tornò, et egli con maggiore studio e fatica che prima, dietro alle rovine di quelle fabriche di continuo si esercitava. Nè restò che non fusse disegnata da lui ogni sorte di fabbrica, tempii tondi e quadri, a otto facce, basiliche, aquidotti, bagni, archi, colisei, anfiteatri et ogni tempio di mattoni, da’ quali cavò le cignature et incatenature, e così il girarli nelle volte; tolse tutte le collegazioni e di pietre e di impernature e di morse; et investigando a tutte le pietre grosse una buca nel mezzo per ciascuna in sotto squadra, trovò esser quel ferro, che è da noi chiamato la ulivella, con che si tira su le pietre; et egli lo rinovò e messelo in uso di poi. Fu adunque da lui messo da parte, ordine per ordine, dorico, ionico e corinzio: e fu tale questo studio, che rimase il suo ingegno capacissimo di potere veder nella immaginazione Roma come ella stava quando non era rovinata. Fece l’aria di quella città un poco di novità l’anno 1407 a Filippo; onde egli, consigliato da’ suoi amici a mutar aria, se ne tornò a Fiorenza. Nella quale, per l’assenza sua, si era patito in molte muraglie, per le quali diede egli a la sua venuta molti disegni e molti consigli. Fu fatto il medesimo anno una ragunata d’architettori e d’ingegneri del paese, sopra il modo del voltar la cupola, dagli Operai di Santa Maria del Fiore e da’ Consoli dell’Arte della Lana, intra’ quali intervenne Filippo, e dette consiglio che era necessario cavare l’edifizio fuori del tetto e non fare secondo il disegno d’Arnolfo, ma fare un fregio di braccia XV d’altezza et in mezzo a ogni faccia fare un occhio grande, perchè oltra che leverebbe il peso fuor delle spalle delle tribune, verrebbe la cupola a voltarsi più facilmente. E così se ne fece modelli e si messe in esecuzione. Filippo, dopo alquanti mesi riavuto, essendo una mattina in su la piazza di S. Maria del Fiore con Donato et altri artefici, si ragionava delle antichità delle cose della scultura, e raccontando Donato che quando e’ tornava da Roma aveva fatto la strada da Orvieto per veder quella facciata del Duomo di marmo, tanto celebrata, lavorata