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142 PRIMA PARTE

(versione diplomatica)


(versione critica)


alla maniera moderna, trapassando d’assai, nel disegno e nell’altre cose, Giotto suo maestro. Dopo questo fece in Araceli in un pilastro accanto alla cappella maggiore, a man sinistra, un S. Lodovico in fresco che è molto lodato, per avere in sè una vivacità non stata insino a quel tempo nè anche da Giotto messa in opera. E nel vero, aveva Stefano gran facilità nel disegno, come si può vedere nel detto nostro libro in una carta di sua mano, nella quale è disegnata la Trasfigurazione che fece nel chiostro di S. Spirito, in modo che, per mio giudizio, disegnò molto meglio che Giotto. Andato poi ad Ascesi, cominciò a fresco una storia della gloria celeste nella nicchia della cappella maggiore nella chiesa di sotto di S. Francesco, dove è il coro; e sebbene non la finì, si vede in quello che fece usata tanta diligenza, quanta più non si potrebbe disiderare. Si vede in questa opra cominciato un giro di Santi e Sante con tanta bella varietà ne’ volti de’ giovani, degl’uomini di mezza età e de’ vecchi, che non si potrebbe meglio disiderare; e si conosce in quegli spiriti beati una maniera dolcissima e tanto unita, che pare quasi impossibile che in que’ tempi fusse fatta da Stefano, che pur la fece, sebbene non sono delle figure di questo giro finite se non le teste, sopra le quali è un coro d’Angeli che vanno scherzando in varie attitudini, et acconciamente portando in mano figure teologiche: sono tutti volti verso un Cristo crucifisso, il quale è in mezzo di questa opera sopra la testa d’un S. Francesco, che è in mezzo a una infinità di Santi. Oltre ciò, fece nel fregio di tutta l’opera alcuni Angeli, de’ quali ciascuno tiene in mano una di quelle chiese che scrive S. Giovanni Evangelista ne l’Apocalisse: e sono questi Angeli con tanta grazia condotti, che io stupisco come in quella età si trovasse chi ne sapesse tanto. Cominciò Stefano questa opera per farla di tutta perfezzione e gli sarebbe riuscito, ma fu forzato lasciarla imperfetta e tornarsene a Firenze da alcuni suoi negocii d’importanza. In quel mentre, dunque, che per ciò si stava in Firenze, dipinse, per non perder tempo, ai Gianfigliazzi, lung’Arno fra le case loro et il ponte alla Carraia, un tabernacolo piccolo in un canto che vi è, dove figurò con tal diligenzia una Nostra Donna, alla quale, mentre ella cuce, un fanciullo vestito e che siede porge un ucello, che per piccolo che sia il lavoro non manco merita esser lodato, che si facciano l’opere maggiori e da lui più maestrevolmente lavorate. Finito questo tabernacolo e speditosi de’ suoi negozii, essendo chiamato a Pistoia da que’ signori, gli fu fatto dipignere l’anno 1346 la cappella di S. Iacopo, nella volta della quale fece un Dio Padre con alcuni Apostoli, e nelle facciate le storie di quel Santo, e particolarmente quando la madre, moglie di Zebedeo, dimanda a Gesù Cristo che voglia i due suoi figliuoli collocare uno a man destra, l’altro a man sinistra sua nel regno del Padre. Appresso a questo è la decollazione di detto Santo, molto bella. Stimasi che Maso detto Giottino, del quale si parlerà di sotto, fusse figliuolo di questo Stefano; e sebbene molti per l’allusione del nome lo tengono figliuolo di Giotto, io, per alcuni stratti che ho veduti, e per certi ricordi di buona fede scritti da Lorenzo Ghiberti e da Domenico del Grillandaio, tengo per fermo che fusse più presto figliuolo di Stefano che di Giotto. Comunche sia, tornando a Stefano, se gli può attribuire che dopo Giotto ponesse la pittura in grandissimo miglioramento, perchè oltre all’essere stato