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alla Nostra Donna; e nel medesimo tempo feci per diversi amici molti disegni, quadri, et altre opere minori che sono tante e sì diverse, che a me sarebbe difficile il ricordarmi pur di qualche parte, et a’ lettori forse non grato udir tante minuzie. Intanto essendosi fornita di murare la mia casa d’Arezzo, et io tornatomi a casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per mio spasso di quella state. Nei quali disegni feci fra l’altre cose tutte le provincie e luoghi dove io aveva lavorato, quasi come portassino tributi, per i guadagni che avea fatto con esso loro, a detta mia casa; ma nondimeno per allora non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ricco di legnami, con tredici quadri grandi, dove sono gli dei celesti, et in quattro angoli i quattro tempi dell’anno ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro, che è in mezzo, dentro al quale sono in figure grandi quanto il vivo la Virtù, che ha sotto i piedi l’Invidia e, presa la Fortuna per i capegli, bastona l’una e l’altra; e quello che molto allora piacque si fu che in girando la sala attorno, et essendo in mezzo la Fortuna, viene talvolta l’Invidia a esser sopra essa Fortuna e Virtù, e d’altra parte la Virtù sopra l’Invidia e Fortuna, sì come si vede che aviene spesse volte veramente. Dintorno nelle facciate sono la Copia, la Liberalità, la Sapienza, la Prudenza, la Fatica, l’Onore et altre cose simili, e sotto attorno girano storie di pittori antichi, di Apelle, di Zeusi, Parrasio, Protogene et altri con varii partimenti e minuzie, che lascio per brevità. Feci ancora nel palco d’una camera di legname intagliato, Abram in un gran tondo, di cui Dio benedice il seme e promette multiplicherà in infinito, et in quattro quadri, che a questo tondo sono intorno, feci la Pace, la Concordia, la Virtù e la Modestia, e perché adorava sempre la memoria e le opere degli antichi, vedendo tralasciare il modo di colorire a tempera, mi venne voglia di risuscitare questo modo di dipignere, e la feci tutta a tempera; il qual modo per certo non merita d’esser affatto dispregiato o tralasciato; et all’entrar della camera feci, quasi burlando, una sposa, che ha in una mano un rastrello, col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla casa del padre, e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito ha un torchio acceso, mostrando di portare dove va il fuoco, che consuma e distrugge ogni cosa. Mentre che io mi stava così passando tempo, venuto l’anno 1548, don Giovan Benedetto da Mantoa, abate di Santa Fiore e Lucilla monasterio de’ monaci neri cassinensi, dilettandosi infinitamente delle cose di pittura et essendo molto mio amico, mi pregò che io volessi fargli nella testa di uno loro refettorio un Cenacolo, o altra cosa simile. Onde risolutomi a compiacerli, andai pensando di farvi alcuna cosa fuor dell’uso comune, e così mi risolvei insieme con quel buon padre a farvi le nozze della reina Ester con il re Assuero, et il tutto in una tavola a olio, lunga quindici braccia, ma prima metterla in sul luogo, e quivi poi lavorarla; il qual modo (e lo posso io affermare, che l’ho provato) è quello che si vorrebbe veramente tenere a volere che avessono le pitture i suoi proprii e veri lumi, perciò che infatti il lavorare a basso, o in altro luogo che in sul proprio dove hanno da stare, fa mutare alle pitture i lumi, l’ombre e molte altre proprietà. In quest’opera adunque mi sforzai di mostrare maestà e grandezza, comeché io non possa far giudizio se mi venne fatto o no; so bene che il tutto disposi in modo,