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consumata tutta quella vernata del 1543, me ne tornai a Fiorenza, dove in casa Messer Ottaviano de’ Medici, la quale io poteva dir casa mia, feci a Messer Biagio Mei lucchese suo compare in una tavola il medesimo concetto di quella di Messer Bindo in Santo Apostolo, ma variai dalla invenzione in fuore ogni cosa, e quella finita si mise in Lucca in San Piero Cigoli alla sua cappella. Feci in un’altra della medesima grandezza, cioè alta sette braccia e larga quattro, la Nostra Donna, San Ieronimo, San Luca, Santa Cecilia, Santa Marta, Santo Agostino e San Guido romito, la quale tavola fu messa nel Duomo di Pisa, dove n’erano molte altre di mano d’uomini eccellenti. Ma non ebbi sì tosto condotto questa al suo fine, che l’Operaio di detto Duomo mi diede a fare un’altra. Nella quale perché aveva andare similmente la Nostra Donna, per variare dall’altra, feci essa Madonna con Cristo morto a’ piè della croce posato in grembo a lei, i ladroni in alto sopra le croci, e con le Marie e Niccodemo che sono intorno, accomodati i Santi titolari di quelle cappelle che tutti fanno componimento e vaga la storia di quella tavola. Di nuovo tornato a Roma l’anno 1544, oltre a molti quadri che feci a diversi amici, de’ quali non accade far memoria, feci un quadro d’una Venere col disegno di Michelagnolo a Messer Bindo Altoviti che mi tornavo seco in casa, e dipinsi per Galeotto da Girone mercante fiorentino in una tavola a olio Cristo deposto di croce, la quale fu posta nella chiesa di Santo Agostino di Roma alla sua cappella. Per la quale tavola poter fare con mio commodo, insieme alcun’opere che mi aveva allogato Tiberio Crispo castellano di Castel Sant’Agnolo, mi era ritirato da me in Trastevere, nel palazzo, che già murò il vescovo Adimari, sotto Santo Onofrio, che poi è stato fornito da Salviati il secondo. Ma sentendomi indisposto e stracco da infinite fatiche, fui forzato tornarmene a Fiorenza, dove feci alcuni quadri, e fra gl’altri uno in cui era Dante, Petrarca, Guido Cavalcanti, il Boccaccio, Cino da Pistoia e Guittone d’Arezzo, il quale fu poi di Luca Martini, cavato dalle teste antiche loro accuratamente, del quale ne sono state fatte poi molte copie. Il medesimo anno 1544 condotto a Napoli da don Giammateo d’Anversa generale de’ monaci di Monte Oliveto, perch’io dipignessi il refettorio d’un loro monasterio fabricato dal re Alfonso Primo, quando giunsi fui per non accettare l’opera, essendo quel refettorio e quel monastero fatto d’architettura antica e con le volte a quarti acuti, e basse, e cieche di lumi, dubitando di non avere ad acquistarvi poco onore. Pure astretto da don Miniato Pitti e da don Ipolito da Milano miei amicissimi et allora visitatori di quell’Ordine, accettai finalmente l’impresa. Là dove, conoscendo di non poter fare cosa buona, se non con gran copia d’ornamenti, gl’occhi abagliando di chi avea a vedere quell’opera, con la varietà di molte figure, mi risolvei a fare tutte le volte di esso refettorio lavorate di stucchi per levar via con ricchi partimenti di maniera moderna tutta quella vecchiaia e goffezza di sesti. Nel che mi furon di grande aiuto le volte e mura, fatte, come si usa in quella città, di pietre di tufo, che si tagliono come fa il legname, o meglio cioè come i mattoni non cotti interamente. Perciò che io vi ebbi commodità, tagliando, di fare sfondati di quadri, ovali et ottangoli ringrossando con chiodi e rimettendo de’ medesimi tufi. Ridotte adunque quelle volte a buona proporzione con quei stucchi, i quali furono i primi che a Napoli fussero lavorati modernamente, e particolarmente le facciate e teste di quel refettorio, vi feci sei tavole a olio, alte