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prigione ignudo, il qual posava coi piedi in un risalto d’un basamento. Questi prigioni erano tutte le provincie soggiogate da questo Pontefice e fatte obediente alla Chiesa apostolica; et altre statue diverse pur legate erano tutte le virtù et arte ingegnose, che mostravano esser sottoposte alla morte non meno che si fussi quel Pontefice che sì onoratamente le adoperava. Su’ canti della prima cornice andava quattro figure grandi: la Vita attiva e la contemplativa, e S. Paulo e Moisè. Ascendeva l’opera sopra la cornice in gradi diminuendo con un fregio di storie di bronzo e con altre figure e putti et ornamenti a torno, e sopra era per fine due figure, che una era il Cielo, che ridendo sosteneva in sulle spalle una bara insieme con Cibele dea della terra, [e] pareva che si dolessi che ella rimanessi al mondo priva d’ogni virtù per la morte di questo uomo, et il Cielo pareva che ridessi che l’anima sua era passata alla gloria celeste. Era accomodato che s’entrava et usciva per le teste della quadratura dell’opera nel mezzo delle nicchie, e drento era caminando a uso di tempio in forma ovale, nel quale aveva nel mezzo la cassa, dove aveva a porsi il corpo morto di quel Papa; e finalmente vi andava in tutta quest’opera quaranta statue di marmo senza l’altre storie, putti et ornamenti e tutte intagliate le cornici e gli altri membri dell’opera d’architettura. Et ordinò Michelagnolo per più facilità che una parte de’ marmi gli fussin portati a Fiorenza, dove egli disegnava tal volta farvi la state per fuggire la mala aria di Roma, dove in più pezzi ne condusse di quest’opera una faccia di tutto punto, e di suo mano finì in Roma due prigioni a fatto cosa divina, et altre statue che non s’è mai visto meglio, che non si messono altrimenti in opera (ché furono da lui donati detti prigioni al signor Ruberto Strozzi per trovarsi Michelagnolo malato in casa sua, che furono mandati poi a donare al re Francesco, e’ quali sono oggi a Cevan in Francia); et otto statue abozzò in Roma parimente, et a Fiorenza ne abozzò cinque, e finì una Vittoria con un prigion sotto, qual sono oggi appresso del duca Cosimo, stati donati da Lionardo suo nipote a sua eccellenza, che la Vittoria l’ha messa nella sala grande del suo palazzo, dipinta dal Vasari. Finì il Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l’altra si tiene la barba, la quale nel marmo svellata e lunga è condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta dificultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d’una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero Santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui. Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltreché vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli, e le mane di ossature, e’ nervi sono a tanta bellezza e perfezzione condotte, e le gambe appresso, e le ginocchia, et i piedi sotto di sì fatti calzari accomodati, et è finito talmente ogni lavoro suo che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua ressurrezione, per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana, ma divina adoreranno.