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fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere, e con tanta diligenza e pulitezza lavorò questa opera che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche sieno, è tenuta la più finita e la più bella opera che si truovi. Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo, coperta, per un mandato insieme con una polizza, e chiedeva settanta ducati per suo pagamento. Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e’ conoscesse che più valesse, e disse al mandato che bastavano quaranta, e gliene diede; onde Michelagnolo gli rimandò indietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse indietro. Per il che Agnolo, a cui l’opera piaceva, disse: "Io gli darò quei settanta". Et egli non fu contento, anzi per la poca fede d’Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto; per che se Agnolo volse la pittura, fu forzato mandargli centoquaranta. Avvenne che dipignendo Lionardo da Vinci pittore rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora gonfaloniere, per la gran virtù che egli vidde in Michelagnolo, gli fece allogagione d’una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l’altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa. Per il che Michelagnolo ebbe una stanza nello spedale de’ Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai che altri lo vedesse. E lo empié di ignudi che bagnandosi per lo caldo nel fiume d’Arno, in quello stante si dava a l’arme nel campo fingendo che gli inimici li assalissero, e mentre che fuor delle acque uscivano per vestirsi i soldati, si vedeva dalle divine mani di Michelagnolo chi affrettare lo armarsi per dare aiuto a’ compagni, altri affibbiarsi la corazza, e molti mettersi altre armi in dosso, et infiniti combattendo a cavallo cominciare la zuffa. Eravi fra l’altre figure un vecchio che aveva in testa per farsi ombra una grillanda di ellera, il quale postosi a sedere per mettersi le calze e non potevano entrargli per aver le gambe umide dell’acqua, e sentendo il tumulto de’ soldati e le grida et i romori de’ tamburini affrettando tirava per forza una calza; et oltra che tutti i muscoli e’ nervi della figura si vedevano, faceva uno storcimento di bocca per il quale dimostrava assai quanto e’ pativa e che egli si adoperava fin alle punte de’ piedi. Eranvi tamburini ancora e figure che coi panni avvolti ignudi correvano verso la baruffa; e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto, chi ginocchioni o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili. V’erano ancora molte figure aggruppate et in varie maniere abbozzate, chi contornato di carbone, chi disegnato di tratti e chi sfumato e con biacca lumeggiati, volendo egli mostrare quanto sapesse in tale professione. Per il che gli artefici stupiti et ammirati restorono, vedendo l’estremità dell’arte in tal carta per Michelagnolo mostrata loro. Onde, veduto sì divine figure, dicono, alcuni che le viddero, di man sua e d’altri ancora non essere mai più veduto cosa che della divinità dell’arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai. E certamente è da credere, perciò che da poi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell’arte e grandissima gloria di Michelagnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone