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e facendo il liberale, con molta dimestichezza lasciava che il Tasso et altri amici suoi, che gli avevano fatto qualche servizio, stesseno a vederlo lavorare, carezzandogli in tutti i modi che sapeva. Quando poi ebbe preso, secondo che dicono, pratica della corte e che gli parve essere in favore, tornando alla natura sua colorosa, mordace, non aveva loro alcun rispetto; anzi, che era peggio, con parole mordacissime, come soleva (il che servì per una scusa a’ suoi avversarii), tassava e biasimava l’opere altrui, e sé e le sue poneva sopra le stelle. Questi modi, dispiacendo ai più e medesimamente a certi artefici, gl’acquistarono tanto odio, che il Tasso e molti altri che d’amici gli erano divenuti contrarii, gli cominciarono a dar che fare e che pensare; perciò che, se bene lodavano l’eccellenza che era in lui dell’arte e la facilità e prestezza con le quali conduceva l’opere interamente e benissimo, non mancava loro dall’altro lato che biasimare. E perché, se gli avesseno lasciato pigliar piede et accommodare le cose sue, non avrebbono poi potuto offenderlo e nuocergli, cominciarono a buon’ora a dargli che fare e molestarlo. Per che ristrettisi insieme molti dell’arte et altri e fatta una setta, cominciarono a seminare fra i maggiori che l’opera del salotto non riusciva, e che lavorando per pratica non istudiava cosa che facesse. Nel che il laceravano veramente a torto, perciò che se bene non istentava a condurre le sue opere, come facevano essi, non è però che egli non istudiasse e che le sue cose non avessero invenzione e grazia infinita, né che non fussero ottimamente messe in opera. Ma non potendo i detti aversarii superare con l’opere la virtù di lui, volevano con sì fatte parole e biasimi sotterrarla, ma ha finalmente troppa forza la virtù et il vero. Da principio si fece Francesco beffe di cotali rumori, ma veggendoli poi crescere oltre il convenevole, se ne dolse più volte col Duca. Ma non veggendosi che quel signore gli facesse in apparenza quegli favori ch’egli arebbe voluto, e parendo che non curasse quelle sue doglienze, cominciò Francesco a cascare di maniera, che presogli i suoi contrarii animo addosso, missono fuori una voce che le sue storie della sala s’avevano a gettare per terra e che non piacevano, né avevano in sé parte niuna di bontà. Le quali tutte cose, che gli pontavano contra, con invidia e maledicenza incredibile de’ suoi avversarii, avevano ridotto Francesco a tale, che se non fusse stata la bontà di Messer Lelio Torelli, di Messer Pasquino Bertini e d’altri amici suoi, egli si sarebbe levato dinanzi a costoro, il che era a punto quello che eglino desideravano. Ma questi sopra detti amici suoi confortandolo tuttavia a finire l’opera della sala et altre che aveva fra mano, il rattennono, sì come feciono anco molti altri amici suoi fuori di Firenze, ai quali scrisse queste sue persecuzioni, e fra gli altri Giorgio Vasari in rispondendo a una lettera, che sopra ciò gli scrisse il Salviati, lo confortò sempre ad aver pazienza, perché la virtù perseguitata raffinisce come al fuoco l’oro, aggiungendo che era per venir tempo che sarebbe conosciuta la sua virtù et ingegno, che non si dolesse se non di sé, che anco non conosceva gli umori e come son fatti gli uomini et artefici della sua patria. Nonostante dunque tante contrarietà e persecuzioni che ebbe il povero Francesco, finì quel salotto, cioè il lavoro che aveva tolto a fare in fresco nelle facciate, perciò che nel palco o vero soffittato non fu bisogno che lavorasse alcuna cosa, essendo tanto riccamente