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amicizia con maestro Andrea scultore da Fiesole, piacque a quello uomo in modo l’ingegno del fanciullo, che postogli affezione, gli cominciò a insegnare, e così lo tenne appresso di sé tre anni. Dopo il quale tempo, essendo morto Michele suo padre, se n’andò Angelo in compagnia di altri giovani scarpellini alla volta di Roma, dove essendosi messo a lavorare nella fabrica di San Piero, intagliò alcuni di que’ rosoni che sono nella maggior cornice che gira dentro a quel tempio, con suo molto utile e buona provisione. Partitosi poi di Roma, non so perché, si acconciò in Perugia con un maestro di scarpello, che in capo a un anno gli lasciò tutto il carico de’ suoi lavori. Ma conoscendo Agnolo che lo stare a Perugia non faceva per lui e che non imparava, portasegli occasione di partire se n’andò a lavorare a Volterra nella sepoltura di Messer Raffaello Maffei detto il Volaterranno, nella quale, che si faceva di marmo, intagliò alcune cose, che mostrarono quell’ingegno dovere fare un giorno qualche buona riuscita. La quale opera finita, intendendo che Michelagnolo Buonarroti metteva allora in opera i migliori intagliatori e scarpellini che si trovassero, nelle fabriche della sagrestia e libreria di San Lorenzo, se n’andò a Firenze dove messo a lavorare, nelle prime cose che fece conobbe Michelagnolo in alcuni ornamenti che quel giovinetto era di bellissimo ingegno e risoluto e che più conduceva egli solo in un giorno che in due non facevono i maestri più pratichi e vecchi. Onde fece dare a lui fanciullo il medesimo salario che essi attempati tiravano. Fermandosi poi quelle fabriche l’anno 1527 per la peste e per altre ragioni, Agnolo non sapendo che altro farsi, se n’andò a Poggibonzi, là onde avevano avuto origine i suoi, padre et avolo, e quivi con Messer Giovanni Norchiati suo zio, persona religiosa e di buone lettere, si trattenne un pezzo, non facendo altro che disegnare e studiare. Ma venutagli poi volontà, veggendo il mondo sotto sopra, d’essere religioso e d’attendere alla quiete e salute dell’anima sua, se n’andò a l’eremo di Camaldoli, dove provando quella vita e non patendo que’ disagi e digiuni et astinenze di vita, non si fermò altrimenti. Ma tuttavia nel tempo che vi dimorò, fu molto grato a que’ padri perché era di buona condizione, et in detto tempo il suo trattenimento fu intagliare in capo d’alcune mazze, o vero bastoni, che que’ santi padri portano quando vanno da Camaldoli all’ermo, o altrimenti a diporto per la selva quando si dispensa il silenzio, teste d’uomini e di diversi animali, con belle e capricciose fantasie. Partito dall’eremo con licenzia e buona grazia del maggiore et andatosene alla Vernia, come quelli che ad ogni modo era tirato a essere religioso, vi stette un pezzo, seguitando il coro e conversando con que’ padri. Ma né anco quella vita piacendogli, dopo avere avuto informazioni del vivere di molte religioni in Fiorenza et in Arezzo, dove andò partendosi dalla Vernia, et in niun’altra potendosi accomodare in modo, che gli fusse comodo attendere al disegno et alla salute dell’anima, si fece finalmente frate negl’Ingesuati di Firenze, fuor della porta Pinti, e fu da loro molto volentieri ricevuto con speranza, attendendo essi alle finestre di vetro, che egli dovesse in ciò essere loro di molto aiuto e comodo. Ma non dicendo que’ padri messa secondo l’uso del vivere e Regola loro, e tenendo per ciò un prete che la dica ogni mattina, avevano allora per capellano un fra’ Martino dell’Ordine de’ Servi,