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stanza magnificamente apparecchiata, dove messi a tavola, cenarono allegramente, e dopo il santo comandò loro piacevolmente che per non soprabondare in spese superflue et avere a stare lontano dagli spedali, si contentassero d’una festa l’anno, principale e solenne, e si partì. Et essi l’ubidirono facendo per ispazio di molti anni ogni anno una bellissima cena e comedia, onde recitarono in diversi tempi, come si disse nella vita d’Aristotile da San Gallo, la Calandra di Messer Bernardo cardinale di Bibbiena, i Suppositi e la Cassaria dell’Ariosto, e la Clizia e Mandragola del Machiavello, con altre molte. Francesco e Domenico Rucellai nella festa che toccò a far loro quando furono signori, fecero una volta l’Arpie di Fineo e l’altra, dopo una disputa di filosofi sopra la Trinità, fecero mostrare da santo Andrea un cielo aperto con tutti i cori degl’angeli, che fu cosa veramente rarissima; e Giovanni Gaddi con l’aiuto di Iacopo Sansovino, d’Andrea del Sarto e di Giovanfrancesco Rustici, rappresentò un Tantalo nell’inferno che diede mangiare a tutti gl’uomini della Compagnia, vestiti in abiti di diversi dii, con tutto il rimanente della favola e con molte capricciose invenzioni di giardini, paradisi, fuochi lavorati et altre cose che troppo, raccontandole, farebbono lunga la nostra storia. Fu anche bellissima invenzione quella di Luigi Martelli, quando essendo signor della Compagnia, le diede cena in casa di Giuliano Scali alla porta Pinti; perciò che rappresentò Marte per la crudeltà tutto di sangue imbrattato, in una stanza piena di membra umane sanguinose, in un’altra stanza mostrò Marte e Venere nudi in un letto, e poco appresso Vulcano, che avendogli coperti sotto la rete, chiama tutti gli dii a vedere l’oltraggio fattogli da Marte e dalla trista moglie. Ma è tempo oggimai dopo questa, che parrà forse ad alcuno troppo lunga digressione, che non del tutto a me pare fuor di proposito per molte cagioni stata raccontata, che io torni alla vita del Rustico. Giovanfrancesco adunque, non molto sodisfacendogli, dopo la cacciata de’ Medici l’anno 1528, il vivere di Firenze, lasciato d’ogni sua cosa cura a Niccolò Boni, con Lorenzo Naldini cognominato Guazzetto, suo giovane, se n’andò in Francia; dove, essendo fatto conoscere al re Francesco da Giovambatista della Palla, che allora là si trovava, e da Francesco di Pellegrino suo amicissimo che v’era andato poco innanzi, fu veduto ben volentieri et ordinatogli una provisione di cinquecento scudi l’anno. Dal qual Re, a cui fece Giovanfrancesco alcune cose, delle quali non si ha particolarmente notizia, gli fu dato a fare ultimamente un cavallo di bronzo due volte grande quanto il naturale, sopra il quale doveva esser posto esso Re. Laonde, avendo messo mano all’opera, dopo alcuni modelli, che molto erano al Re piaciuti, andò continuando di lavorare il modello grande et il cavo per gettarlo, in un gran palazzo statogli dato a godere dal Re. Ma che che se ne fusse cagione, il Re si morì prima che l’opera fusse finita; ma perché nel principio del regno d’Enrico, furono levate le provisioni a molti e ristrette le spese della corte, si dice che Giovanfrancesco, trovandosi vecchio e non molto agiato, si viveva, non avendo altro, del frutto che traeva del fitto di quel gran palagio e casamento che aveva avuto a godersi dalla liberalità del re Francesco; ma la fortuna, non contenta di quanto aveva insino allora quell’uomo sopportato, gli diede, oltre all’altre, un’altra grandissima percossa; perché avendo