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la morte di Ioseffo e mostratogli i panni sanguinosi e nell’altro il fuggire di Ioseffo, lasciando la veste, dalla moglie di Putifaro, non piacquero né al Duca, né a que’ maestri che gl’avevano a mettere in opera, parendo loro cosa strana e da non dover riuscire ne’ panni tessuti et in opera. E così Iacopo non seguitò di fare più cartoni altrimenti. Ma tornando a’ suoi soliti lavori, fece un quadro di Nostra Donna che fu dal Duca donato al signor Don... che lo portò in Ispagna. E perché sua eccellenza seguitando le vestigia de’ suoi maggiori ha sempre cercato di abellire et adornare la sua città, essendole ciò venuto in considerazione, si risolvé di fare dipignere tutta la capella maggiore del magnifico tempio di San Lorenzo, fatta già dal gran Cosimo Vecchio de’ Medici. Per che, datone il carico a Iacopo Puntormo, o di sua propria volontà o per mezzo (come si disse) di Messer Pierfrancesco Ricci maiorduomo, esso Iacopo fu molto lieto di quel favore, perciò che se bene la grandezza dell’opera essendo egli assai bene in là con gl’anni gli dava che pensare, e forse lo sgomentava, considerava dall’altro lato quanto avesse il campo largo nella grandezza di tant’opera di mostrare il valore e la virtù sua. Dicono alcuni che veggendo Iacopo essere stata allogata a sé quell’opera, nonostante che Francesco Salviati pittore di gran nome fusse in Firenze et avesse felicemente condotta e di pittura la sala di palazzo, dove già era l’udienza della Signoria, ebbe a dire, che mostrarebbe come si disegnava e dipigneva, e come si lavora in fresco, et oltre ciò, che gl’altri pittori non erano se non persone da dozzina et altre simili parole altiere e troppo insolenti. Ma perché io conobbi sempre Iacopo persona modesta e che parlava d’ognuno onoratamente et in quel modo che dee fare un costumato e virtuoso artefice, come egli era, credo che queste cose gli fussero aposte e che non mai si lasciasse uscir di bocca sì fatti vantamenti, che sono per lo più cose d’uomini vani e che troppo di sé presumono; con la qual maniera di persone non ha luogo la virtù né la buona creanza. E se io arei potuto tacere queste cose, non l’ho voluto fare; però che il procedere come ho fatto mi pare ufficio di fedele e verace scrittore. Basta che se bene questi ragionamenti andarono attorno, e massimamente fra gl’artefici nostri, porto nondimeno ferma opinione che fussero parole d’uomini maligni, essendo sempre stato Iacopo nelle sue azzioni, per quello che appariva, modesto e costumato. Avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata quella capella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per ispazio d’undici anni in modo serrata che da lui infuori mai non vi entrò anima vivente, né amici né nessuno. Bene è vero che disegnando alcuni giovinetti nella sagrestia di Michelagnolo, come fanno i giovani, salirono per le chiocciole di quella in sul tetto della chiesa e levati i tegoli e l’asse del rosone di quelli che vi sono dorati, videro ogni cosa. Di che accortosi Iacopo l’ebbe molto per male, ma non ne fece altra dimostrazione che di turare con più diligenza ogni cosa, se bene dicono alcuni che egli perseguitò molto que’ giovani, e cercò di fare loro poco piacere. Immaginandosi dunque in quest’opera di dovere avanzare tutti i pittori e forse, per quel che si disse, Michelagnolo, fece nella parte di sopra in più istorie la creazione di Adamo et Eva, il loro mangiare del pomo vietato e l’essere scacciati di Paradiso, il zappare la terra, il sacrifizio d’Abel, la morte di Caino, la benedizione del seme di Noè e