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90 capitolo vii.


Di quando in quando, attraverso gli squarci della nebbia, alzatasi coi primi raggi del sole, apparivano delle vaste fattorie, costruite per lo più in legname, con immensi recinti che si prolungavano per miglia e miglia, gremiti di grassi bufali durante la buona stagione, ma ora deserti.

Dei cavalieri, di tratto in tratto, si mostravano e si mettevano a galoppare dietro all’automobile, lanciando grida selvagge.

Erano per lo più irochesi, gli ultimi discendenti di quelle formidabili tribù che un tempo costituivano sei nazioni, ora ridotte solamente a cinque: gli Oneida, i Seneca, i Tusiarora, gli Onondaga ed i Cayuga.

L’ultima è ormai scomparsa per le guerre sanguinose e non ne esiste ormai più nessun rappresentante, nemmeno fra gli Assiboini e gli Algonchini.

Non vi è più nessun Mandano nel Canadà.

Quegli indiani vestiti ormai quasi all’europea, con un cilindro in testa spelato ed ammaccato, adorno di qualche etichetta di sardine di Nantes, con dei lunghi calzoni neri sbrindellati, che altro non conservavano dell’antico costume che una pelle di bisonte malamente conciata o qualche coperta variopinta e tutta rattoppata, facevano una ben meschina figura, quantunque non avessero ancora perduta la tinta più o meno bruno-rossastra e le capigliature lunghe.

Fenimore Cooper non avrebbe potuto più riconoscere in quei guerrieri degenerati nessuno dei suoi eroi.

— Peccato! — mormorava lo studente, il quale non si stancava di osservarli, quantunque non vedesse più, sopra i lunghi capelli svolazzanti, i diademi di piume multicolori, o sui loro dorsi le artistiche acconciature di tacchino selvatico. — La civiltà ha distrutto la poesia delle pelli-rosse perfino in mezzo alle regioni nevose. —

A mezzodì l’automobile, sempre rimorchiando splendida-