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una battaglia coi trichechi 223


— Che sia l’acqua che produce questo fragore? — chiese lo studente.

— Preparate il fucile.

— Per accoppare chi?

— Le morse, signor mio, diventano talvolta pericolose quando sono in buon numero e si disturbano i loro accampamenti.

Si sono scelte la foce di questo fiume per svernare tranquillamente.

— È almeno buona la loro carne?

— Puah!... — fece l’ex-baleniere. — Tutt’al più il fegato.

— Ci prenderemo l’olio. Di quello almeno ne danno.

— Non è benzina, — disse il canadese. — Avanti, Dik, con prudenza. —

L’automobile si avanzava lentamente, seguendo una grande curva, la quale impediva di scorgere la foce del corso d’acqua.

Malgrado il fragore prodotto dal motore, i muggiti giungevano sempre, aumentando d’intensità.

Pareva che il campo dei trichechi fosse ben popolato, a giudicarlo da tutto quel fracasso.

Oltrepassata la curva, uno spettacolo terribile si offerse dinanzi agli occhi dei tre esploratori.

Radunati all’estremità della galleria, la quale finiva sui banchi di ghiaccio della baia d’Hudson, si trovavano tre o quattrocento anfibi, di dimensioni enormi, poichè quasi tutti misuravano non meno di tre metri di lunghezza con una circonferenza di due.

Erano delle morse, chiamate anche trichechi, e dagli esquimesi awak.

Quei mostri delle regioni polari, nella forma si avvicinano alle foche, ma sono più giganteschi, con un muso corto ed ottuso, le labbra fornite di grosse setole irte come quelle dei gatti