Pagina:Una sfida al Polo.djvu/154

148 capitolo xii.


Si cacciò nella cintura una Colt, non essendo improbabile che dei lupi si aggirassero intorno al villaggio per fare la festa a qualche cane esquimese, poi si accostò con precauzione al carrozzone-salon guardando attraverso un finestrino.

Buio perfetto. I due esploratori dormivano già, invitati dal dolce tiepore che si sprigionava dalla piccola stufa e dai ruggiti delle raffiche.

— Benissimo, — mormorò l’ex-baleniere. — Speriamo che Karalit non li abbia imitati!... —

Tornò indietro e si cacciò dentro la galleria che metteva nella capanna del capo, giungendo ben presto nella stanza circolare.

Karalit non si era affatto coricato. Stava preparando una pelle di morsa, battendola con un sasso mentre sua moglie, una donna ancora giovane e abbastanza belloccia per essere una esquimese, seduta sotto la lampada masticava coi suoi robusti denti gli stivaloni da caccia del marito per renderli più morbidi.

— Mio fratello bianco qui!... — esclamò il capo, interrompendo subito la sua nauseante operazione. — Che cosa vuole a quest’ora?

— Invitarti a bere con me una bottiglia, prima di tutto, di quell’acqua forte che brucia e che scalda e che a te piace tanto, — rispose l’ex-baleniere.

— L’hai portata con te? — chiese l’esquimese, i cui occhi si erano subito accesi d’ardente bramosìa.

— Eccola: è quasi piena.

— Mio fratello bianco è un vero amico, — disse Karalit, allungando le mani per afferrarla.

— Adagio, mio caro: te la berrai discorrendo con me.

— Che cosa vuoi?

— Ricordarti un’altra volta, innanzi tutto, che io ti ho salvata la vita.