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142 capitolo xi.


— Eppure quel diavolo di Dik pare che non si trovi troppo male qui dentro.

— Era marinaio, mio caro.

— Già, me l’ero scordato. —

Mentre si scambiavano le loro impressioni, il capo e lo stregone non perdevano il loro tempo.

Avevano levate, di sotto un cumulo di pelli di foca, certe scodelle di forma ovale, di pietra ollare malamente scavata, e le avevano deposte nel centro della catapecchia, su una splendida pelliccia d’orso bianco, poi avevano portato quattro o cinque vasi di dimensioni piuttosto enormi, tirando fuori, colle mani, si capisce, poichè l’esquimese ha sempre ignorato l’uso della forchetta, delle teste di foca arrostite prima sulla lampada e poi conservate nell’olio di balena, bocconi degni solamente di essere assaggiati dai grandi personaggi.

Poi da un altro vaso trassero un certo intruglio formato di sangue coagulato e di quei tali licheni chiamati zuppa di roccia, altro boccone scelto, quindi un paio d’oche marine conservate nel grasso di balena dopo essere state arrostite al fuoco della fumosa lampada, che per gli esquimesi serve da stufa e da fornello.

— Dio degli dei!... — esclamò lo studente, cacciandosi le mani nei capelli come un disperato. — Ed io dovrò mandare giù queste porcherie!... Fulmine di tutti i fulmini di Giove, del cielo e della terra!... Io scappo!... —

Se il canadese non fosse stato pronto ad afferrarlo per un lembo della sua villosa casacca, il campione del salto di Cambridge avrebbe certamente dato un saggio dell’agilità e della robustezza dei suoi garretti, filando come un’automobile attraverso la galleria.

— Avete dunque dimenticato che abbiamo portato un canestro contenente qualche cosa di meglio di queste porcherie,