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90 ultime lettere d’jacopo ortis.

dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno, quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. — Ma poniamo che tu, superando e la prepotenza degli stranieri, e la malignità de’ tuoi concittadini, e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento; di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? Ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna, reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. — Ti avanza ancora un seggio fra’ capitani; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma — o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara.

Tacque — ed io, dopo lunghissimo, silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato.1 — Il vecchio mi guardò: — Se tu nè speri, nè temi fuori di questo mondo — e mi stringeva la mano — ma io! — Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze. — Intesi un calpestìo che s’avanzava verso di noi; e poi travidi

  1. Questa esclamazione dell’Ortis dee mirare a quel passo di Tacito: «Cocceo Nerva, assiduo col principe, in tutta umana e divina ragione dottissimo, florido di fortuna e di vita, si pose in cuor di morire. Tiberio il riseppe, e instò interrogandolo, pregandolo sino a confessare che gli sarebbe di rimorso e di macchia se il suo famigliarissimo amico fuggisse senza ragioni la vita. Nerva sdegnò il discorso; anzi s’astenne d’ogni alimento. Chi sapea la sua mente, diceva, ch’ei più dappresso veggendo i mali della repubblica, per ira e sospetto volle, finché era illibato, e non cimentato, onestamente finire». Ann. VI.