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74 ultime lettere d’jacopo ortis.

intenerito; non però mutò aspetto, nè gli cadde lagrima dagli occhi, né rispose parola; benché il signore T*** a mezzo il discorso si rattenesse a stento dal piangere: e restò a canto del letto di Jacopo sino a notte tardissima: ma nè l’uno nè l’altro aprirono bocca se non quando si dissero addio. — La malattia del giovine aggravò; e ne’ giorni seguenti fu sovrappreso da febbre pericolosa.

Frattanto io sgomentato e dalle lettere recenti di Jacopo, e da quelle del padre di Teresa, studiava ogni via per accelerare la partenza dell’amico mio, come solo rimedio alla sua violenta passione. Nè ebbi cuore di rivelarla a sua madre, la quale aveva già avuto mille altre dolorosissime prove dell’indole sua capace d’eccessi; e le dissi soltanto, ch’era un po’ malato, e che il mutar aria gli avrebbe certamente giovato.

In quel tempo stesso incominciavano a inferocire a Venezia le persecuzioni. Non v’erano leggi, ma tribunali arbitrarj; non accusatori, non difensori; bensì spie di pensieri, delitti nuovi, ignoti a chi n’era punito, e pene subite, inappellabili. I più sospettati gemevano carcerati; gli altri, benché d’antica e specchiata fama, erano tolti di notte alle proprie case, manomessi dagli sgherri, strascinati a’ confini e abbandonati alla ventura, senza l’addio de’ congiunti, e destituti d’ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l’esilio scevro da questi modi violenti ed infami fu somma clemenza. Ed io pure tardo, e non ultimo, e tacito martire, vo da più mesi profugo per l’Italia, volgendo senza nessuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Onde io allora, adombrato anche per la libertà di Jacopo, persuasi sua madre, quantunque desolatissima, a raccomandargli che sino a tempi migliori cercasse rifugio in altro paese; tanto più che quando s’era partito di Padova, si scusò allegando gli stessi pericoli. Fu fidata la lettera a un servo, il quale giunse a’ colli Euganei la sera de’ 15 luglio, e trovò Jacopo ancora a letto, sebbene migliorato d’assai. Gli sedeva vicino il padre di Teresa. Lesse la lettera sommessamente, e la posò sul guanciale: poco dopo la rilesse; parve commosso, ma non ne parlò.

Il dì 19 s’alzò da letto. In quel giorno stesso sua madre gli riscrisse inviandogli danaro, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo per le viscere di Dio che partisse. Assai prima di sera andò da Teresa; e non trovò che l’Isabellina, la quale tutta intenerita contò ch’ei s’assise muto, si rizzò, la baciò, e se ne andò. Tornò dopo un’ora, e salendo per le scale la incontrò nuovamente; e se la strinse al petto, la baciò più volte, e la bagnò di lagrime. Si pose a scrivere, mutò varii fogli, e li stracciò poi tutti. Si aggirò pensieroso per l’orto. Un servo, passandovi su l’imbrunire, lo vide sdrajato: ripassando, lo trovò ritto presso al rastrello in atto d’uscire, e col capo rivolto attentissimo verso la casa ch’era battuta dalla luna.

Tornatosi a casa, rimandò il messo rispondendo a sua madre, che domani su l’alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta più vicina. Innanzi di coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa, e la consegnò all’ortolano. All’alba partì.


ore 9.

Perdonami, Teresa; io ho funestato la tua giovinezza, e la quiete della tua casa: ma fuggirò. Nè io mi credeva dotato di tanta costanza. Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco: usiamo dunque di questo momento finchè il cuore mi regge, e la ragione non mi abbandona affatto. Pur la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre, e di piangerti. Ma sarà obbligo mio di non più scriverti, nè di mai più rivederti, se non se quando sarò certissimo di lasciarti quieta