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66 | ultime lettere d’jacopo ortis. |
nostre illusioni. Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a questo or a quell’arboscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva, e che dopo un’ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne’ giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m’accerta che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti il mio cuore, sai che sonno spaventevole è questo ch’io dormo; sai che non altro mi avanza fuorché il pianto e la morte!
Così vaneggio! cangio voti e pensieri, e quanto la natura è più bella tanto più vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m’abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la natura dormiva mortalmente, la mia anima pareva tranquilla — ed ora?
Eppur mi conforta la speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del sole, chi salutò la natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sè un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte.
M’affaccio al balcone ora che la immensa luce del sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che balenano su l’orizzonte; e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de’ pini piantati dal padre mio su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da’ venti la pietra della mia fossa. Quivi ti vedo venir con mia madre, e pregar pace non foss’altro alle ceneri dell’infelice figliuolo. Allora dico a me stesso. Forse Teresa verrà solitaria su l’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti — forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era uomo, e infelice.