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30 ultime lettere d’jacopo ortis.

ch’ei vede gemendo la dolorosa rassegnazione di quella povera fanciulla, ma... — E per questo quand’io veggo che gli uomini cercano per una certa fatalità le sciagure con la lanterna, e che vegliano, sudano, piangono per fabbricarsele dolorosissime, eterne; io mi sparpaglierei le cervella temendo che non mi si cacciasse per capo una simile tentazione.

Ti lascio, o Lorenzo; Michele mi chiama a desinare: tornerò a scriverti, s’altro non posso, a momenti.


Il mal tempo s’è diradato, e fa il più bel dopo pranzo del mondo. Il Sole squarcia finalmente le nubi, e consola la mesta natura, diffondendo su la faccia di lei un suo raggio. Ti scrivo di rimpetto al balcone donde miro la eterna luce che si va a poco a poco perdendo nell’estremo orizzonte tutto raggiante di fuoco. L’aria torna tranquilla; e la campagna, benchè allagata, e coronata soltanto d’alberi già sfrondati e cospersa di piante atterrate pare più allegra che la non era prima della tempesta. Così, o Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo barlume della speranza, e inganna la sua trista ventura, con que’ piaceri a’ quali era affatto insensibile in grembo alla cieca prosperità. — Frattanto il dì m’abbandona; odo la campana della sera: eccomi dunque a dar fine una volta alla mia narrazione.

Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio fino a che ci apparve biancheggiar dalla lunga la casetta che un tempo accoglieva

Quel Grande alla cui fama è angusto il mondo,
Per cui Laura ebbe in terra onor celesti.

Io mi vi sono appressato come se andassi a prostrarmi su le sepolture de’ miei padri, e come uno di que’ sacerdoti che taciti e riverenti s’aggiravano per li boschi abitati dagl’Iddii. La sacra casa di quel sommo Italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un tanto tesoro. Il viaggiatore verrà invano di lontana terra a cercare con meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dei canti celesti del Petrarca. Piangerà invece sopra un mucchio di ruine coperto di ortiche e di erbe selvatiche fra le quali la volpe solitaria avrà fatto il suo covile. Italia! placa l’ombre de’ tuoi grandi. — Oh! io mi risovvengo col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo d’essere vissuto quaranta sette anni in mezzo a’ dileggi de’ cortigiani, le noje de’ saccenti, e l’orgoglio de’ principi, or carcerato ed or vagabondo, e tuttavia melancolico, infermo, indigente; giacque finalmente nel letto della morte e scriveva esalando l’eterno sospiro: Io non mi voglio dolere della malignità della fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico. O mio Lorenzo; mi suo-