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106 | ultime lettere d’jacopo ortis. |
Sull’albeggiare de’ 13 marzo smontò a’ colli Euganei, e spedì a Venezia Michele, gittandosi, stivalato com’era, subitamente a dormire. Io mi stava appunto con la madre di Jacopo, quando essa, che prima di me si vide innanzi il ragazzo, chiese spaventata: E mio figlio? — La lettera di Alessandria non era per anco arrivata, e Jacopo prevenne anche quella di Rimino: noi ci pensavamo ch’ei si fosse già in Francia; perciò l’inaspettato ritorno del servo ci fu presentimento di fiere novelle. Ei narrava: Il padrone è in campagna; non può scrivere, perché abbiamo viaggiato tutta notte, dormiva quand’io montava a cavallo. Vengo per avvertire che noi ripartiremo; e credo, da quel che gli ho udito dire, per Roma; se ben mi ricordo, per Roma, e poi per Ancona, dove ci imbarcheremo: per altro il padrone sta bene; ed è quasi una settimana ch’io lo vede più sollevato. Mi disse che prima di partire verrà a salutar la signora; e però ha mandato qui me ad avvisare; anzi verrà qui domani l’altro, e forse domani. Il servo parea lieto, ma il suo dire confuso accrebbe le nostre sollecitudini; né si acquetarono se non il giorno appresso, quando Jacopo scrisse, come ripartirebbe per l’Isole già Venete, e che temendo di non ritornare forse più, verrebbe a rivederci e a ricevere la benedizione di sua madre. — Questo biglietto andò smarrito.
Frattanto nel dì del suo arrivo a’ colli Euganei, svegliatosi quattr’ore prima di sera, scese a passeggiare sino presso alla chiesa, tornò, si rivestì, e s’avviò a casa T***. Seppe da un famigliare come da sei giorni erano tutti venuti da Padova, e che a momenti sarebbero tornati dal passeggio. Era quasi sera, e tornavasi a casa. Dopo non molti passi s’accorse di Teresa che veniva con l’Isabellina per mano; e dietro alle figliuole, il signore T*** con Odoardo. Jacopo fu preso da un tremito, e s’accostava perplesso. Teresa appena il conobbe, gridò: Eterno Iddio! e dando indietro mezzo tramortita si sostenne sul braccio del padre suo. Com’ei fu presso, e che venne ravvisato da tutti, ella non gli disse parola: appena il signore T*** gli stese la mano; e Odoardo lo salutò asciuttamente. Solo l’Isabellina gli corse addosso, e mentre ei se la prendea su le braccia, essa baciavalo e lo chiamava il suo Jacopo, e si voltava a Teresa mostrandolo: ed egli accompagnandosi a loro, parlava sempre con la ragazza. Niuno aprì bocca; Odoardo soltanto gli chiese se andasse a Venezia. — Fra pochi giorni, rispose. Giunti alla porta, si accomiatò.
Michele, che a nessun patto accettò di riposarsi in Venezia per non lasciare solo il padrone, si tornò a’ colli un’ora incirca dopo mezzanotte, e lo trovò seduto allo scrittojo rivedendo le sue carte. Moltissime ne bruciò, parecchie di minor conto le lasciava cadere stracciate sotto al tavolino. Il ragazzo si coricò, lasciando l’ortolano perché ci badasse; tanto più che Jacopo non aveva in tutto quel dì desinato. Infatti poco di poi gli fu recata parte del suo desinare, ed ei ne mangiò attendendo sempre alle carte. Non le esaminò tutte; ma passeggiò per la stanza, poi prese a leggere. L’ortolano che lo vedeva mi disse, che sul finir della notte aprì le finestre, e vi si fermò un pezzo: pare che subito dopo abbia scritto i due frammenti che sieguono: sono in diverse facciate, ma in un medesimo foglio.
«Or via: costanza. — Eccoti una bragera scintillante d’infiammati carboni. Ponvi dentro la mano; brucia le vive tue carni: bada; non t’avvilire d’un gemito. — A che pro? — E a che pro deggio affettare un eroismo che non mi giova?»
«È notte; alta, perfetta notte. A che veglio immoto su questi libri? — Io non appresi che la scienza di ostentare saviezza