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SALVATRICE


NOVELLA.


Ella m’aveva scritto così: «Chissà, forse mi sarà concessa la gioia di rivederti presto, forse potrò parlarti finalmente e stringerti al cuore... Il mese venturo ci rechiamo nel Veneto; se mi riesce, io affretterò d’un giorno la partenza da Padova per andare a Venezia sola, col tram e col vaporetto di Fusina. Ti farò sapere la data e l’ora. Attendi mie istruzioni...».

Quante e quante volte io rilessi queste poche, benedette parole e mi strinsi alle labbra, piangendo, il biglietto profumato! con quale ansietà contai le settimane, i giorni, le ore, privandomi di tutto, perfino delle cose più necessarie, onde raggranellare i quattrini occorrenti per un viaggio, forse per un breve soggiorno a Venezia! Colei che mi scriveva, invitandomi a quel ritrovo, era mia madre, mia madre che non avevo mai conosciuto.

Un sincero e modesto artista che consumava la sua vita nell’incidere, aveva protetto la mia malinconica giovinezza, dicendomi che i miei genitori erano morti entrambi. Sulla tomba di mio padre a Campo Verano avevo sillabato più volte il nome di Andrea Giuria pittore» ma quando chiedevo ove fosse sepolta mia madre, nessuno sapeva dirmelo con precisione, e le risposte vaghe, appena valevoli ad appagare la curiosità infantile, più non riescivano a convincere il tumultuoso desiderio del giovane. Sospettavo già un mistero nella mia nascita e alcune parole pronunziate un giorno, non so se per caso o con qualche intenzione da Dino Gozzoli l’incisore, avevano confermato questo dubbio, infiammandomi in cuore la speranza che mia madre esistesse ancora. Era un giorno d’autunno sereno e mite. Il nostro piccolo giardino, fuori di porta, cinto da una siepe di bignonie e di passiflore appariva lussureggiante di colore: le malve innalzavano presso all’acanto i loro fusti guerniti di sessili fiori; i crisantemi primaticci, i gerani carichi di umbelle
illuminavano di ciocche bianche, gialle, rosse il verde ancor vivo degli arbusti; sulla facciata della casetta, le rose bengalensi rifacevano una seconda primavera, e la ninfa antica, corrosa dal tempo, mezza vestita d’un muschio smeraldino, versando dalla sua anfora un tenue filo d’acqua, nella piccola urna di porfido che avevano scavata in un’ajuola, sotto le lattughe, sembrava cantarellare con quel lieve gorgoglio una dolce cantilena.

Io guardavo lontano, verso la linea molle dei monti che si perdeva nei fulgori del sereno orizzonte, guardavo i paesi e le ville biancheggianti sui colli, in un sorriso di morente sole, e il divino paesaggio di Roma mi pareva nuovo. Mi tenevo una mano al petto ove il cuore martellava, mi sentivo mancare il respiro, nell’affanno di una gioia quasi angosciosa, d’un desiderio senza nome, e alle labbra assetate mi veniva la tenera parola, continuamente, come il balbettio d’un bambino che soffre: Mamma, mamma, oh mamma!...

Non so quant’io rimanessi nel piccolo giardino, con quella trepidazione nell’anima, con quella speranza sulla quale non osavo ancora chiedere alcuno schiarimento, per la tema che mi svanisse dinanzi! Assorto talora in una specie d’estasi interna, contemplavo quasi inconsciamente il creato: i colori e le forme erano più belli, i profumi più soavi e penetranti e i misteri delle lontananze vaghe non turbavano più colla stessa inquietudine l’intimità del mio pensiero.

Quando mi scossi e m’alzai dal cippo ove stavo seduto, la notte era discesa lentamente sul mirabile paesaggio; il primo quarto della luna viaggiando entro il purissimo spazio, accarezzava con un blando chiarore il volto corroso e deturpato della ninfa boschereccia e i crisantemi bianchi come gentili spettri dei fiori, dominavano col loro candore immacolato la fredda penombra.

Più tardi, a notte inoltrata, quando la