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impressioni e ricordi di bayreuth | 251 |
cato, dà di piglio al suo corno e suona con al
legri squilli, una canzone che caratterizza la
sua natura di figlio della selva e di futuro eroe.
Un rumore insolito accenna all’uscita di Fafner dalla caverna in forma piú che di drago, di sauro immane, un’apparizione antidiluviana che sorprende, e qui segue la scena fantasticamente comica della breve lotta del giovane eroe col mostruoso gigante che finisce per soggiacere ad una mortale ferita, non senza averlo avvertito, colla sua voce cavernosa, che chi l’aveva spinto all’impresa meditava la sua morte.
Nell’estrarre la spada dal cuore di Fafner, Sigfrido si macchia le dita di sangue, per lenirne l’acuto bruciore le porta alle labbra, e subito intende il linguaggio dell’uccello. Ma anche per noi non è piú un gorgheggio di flauti e la voce di un fanciullo che dall’alto del tiglio insegna:
«È tuo. o Sigfrido, l’oro dei Nibelungi, esso si giace nella caverna, potrà darti l’elmo magiche ebbrezze, ma se conquidi l’anello diverrai signore del mondo».
Sigfrido s’avvia, scompare nella caverna e subito segue una scena rissosa e delle piú caratteristiche fra Mime ed Alberico che si disputano la conquista dell’oro, ma lì divide e li mette in fuga il ritorno del Velso recante l’elmo e l’anello.
Il profetico uccellino lo consiglia a non fidarsi di Mime e quando l’astuto Nano ricompare colla bevanda avvelenata, dopo uno spiritoso colloquio, invece di prendere la fiala traditrice ch’esso gli porge, il giovane esaltato lo stende morto al suolo, lo getta nell’antro di Fafner, e chiude l’entrata col cadavere del gigante.
Sulla nuova vittima torna a risuonare il tema della maledizione.
Ma l’uccello non desiste dai suoi suggerimenti, e addita all’entusiasmo, all’ardore giovanile del Velso lo scoglio di Brunilde, onde al voluttuoso incantesimo della foresta s’aggiunge quello del fuoco, coi cromatismi di Loge; poi l’uccello predominante accompagna ancora l’ardentissimo eroe alla ricerca di quell’ignoto che già lo turba e che deve appagare l’ingenuo.suo sogno d’amore. Al principio del terz’atto infuria la bufera in una regione solitaria al piede d’una montagna. Appare il viandante ed evoca per l’ul tima volta con una solenne chiamata, l’apparizione di Erda, della Wala, dell’increato.
La dea della saggezza sorge dalla terra in un nimbo di luce azzurrognola coi lunghi: capelli scintillanti di brina. Ma la sua sapienza é esaurita ormai, impotente a consigliarlo, Erda lo esorta di rivolgersi alle Norne, poi a Brunilde, e udendo chela Valchiria fu condannata dal padre, si confonde, si smarrisce, nell’intelletto evanescente e tosto si sprofonda nelle viscere della terra.
Un giorno ell’aveva detto a Wotan che se Alberico, pur rinunziando all’amore, riesciva ad allevar prole, quel figlio formerebbe la rovina degli dei, e il nume, corrucciato contro Fricka che esigeva la morte di Sigmundo, aveva benedetto nel suo sconforto, come desiderata fonte di sterminio, quel futuro Nibelungo. Ora invece egli pensa a Brunilde, e concentra sovra essa e sovra Sigfredo le forze redentrici del mondo, pronto ad abbandonare loro anche il regno, dinanzi alla minacciante rovina del Wal halla. Svanita l'apparizione, Wotan presente il prossimo arrivo di Sigfrido e si dispone solenne ad attenderlo. Guidato sempre dall’anello il giovane si presenta animoso e l’incognito viandante gli taglia la via. «Io sono il custode del colle» dice egli «io vi tengo chiusa l’eletta vergine, chi potesse svegliarla e farla sua m’avrebbe vinto in eterno!» Questa resistenza altro non vale che a provare il coraggio del Velso. Ardito e non curante degli ostacoli egli si fa innanzi, riconosce finalmente, da una parola, l’uccisore di suo padre, gli si avventa contro e gl’infrange la lancia colla sua spada. Wotan cede il passo al suo voluto erede e scompare accompagnato dalle armonie velate del Crepuscolo degli dei.
Un vivo chiarore illumina la scena, divampa, si stende in un mare di fuoco. Suonando col corno la sua allegra cantilena, Sigfrido si getta giocondo tra le fiamme; l’orchestra ne ritrae il crepitio selvaggio, poi ricorda l’oro del Reno, la melodia del sonno e annunzia col motivo di Sigfrido ch’egli è presso al termine della sua ardimentosa impresa.
A poco a poco, i vapori incandescenti svaniscono come rosse nebbie, e nella scena rasserenata, sul tranquillo altipiano, Sigfrido ci riappare in presenza dell’amore dormente. Il motivo di Freia si ripete nei dolci suoni delle arpe. Invaghito dell’alpestre solitudine l’eroe guarda intorno a sé, scorge prima Grane, il fido corsiero assopito al piede d’un abete, poi nell’ombra di esso una giacente figura che prende per un guerriero. Egli s’appressa peritoso, le toglie l’elmo e lo scudo, poi la corazza che gli rivela una donna in bianca veste, e dinanzi alla luminosa visione un turbamento indefinibile lo coglie, che assomiglia ai tremiti dianzi ignoti della paura, e il ricordo della madre perduta ritorna, tenerissimo, come per implorare da lei il perduto coraggio. Dopo lunga esitanza il giovane si china sulla Valchiria, la bacia ardentemente, lungamente,poi, atterrito dal proprio ardire, si ritrae in trepidante attesa sopra una rupe.
L’assopita fanciulla si desta salutando serenamente la vita novella. E qui comincia il meraviglioso duetto d’amore, d’un infinito; sopranaturale amore.
Dolcemente sorpresa, alla prima, e rapita di entusiasmo per l’apparizione liberatrice, Brunilde si sovviene a poco a poco della divinità perduta, della sua verginale fierezza di Valchiria, e dell’aspro destino che la condannò, e