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248 | impressioni e ricordi di bayreuth |
mingo viandante che saprà destarla. Brunilde
atterrita stramazza a terra e le Valchirie che
hanno osato difenderla, minacciate da eguale
severità, si raccolgono, per fuggire, nel bosco
vicino e scompajono a cavallo fra le nubi.
Lungi dall’ottenere l’effetto dei mirabili macchinismi nella prima parte dell’Oro del Reno, che da una sí forte illusione di realtà, l’arte scenica nella famosa cavalcata, in questo squarcio musicale straordinario, pressochè sovrumano, non ha potuto o saputo innalzarsi fino all’imponente grandezza della concezione wagneriana e lungi dal coadiuvare la musice ne scema quasi l’efficacia. Nondimeno quella strana apoteosi musicale del cavallo induce in uno stupore profondo, dal quale però non tardano a destarci nuove e violenti comozioni.
Wotan e Brunilde sono rimasti soli. Il padre fremente minaccia ed impone, la figlia desolata implora, pur non venendo meno alla sua nativa alterezza, altro lenimento non chiedendo al proprio castigo se non la grazia di non doversi sottomettere al capriccio d’un vile, ma di potere attendere sopra una roccia circondata di fiamme, la conquista d’un eroe.
Questa scena é fra le piú patetiche che Wagner abbia scritte poiché tanti diversi affetti e patimenti vi trovano la loro espressione. E un insuperabile poema di strazii e di tenerezze. L’interessante figura di Wotan vi gigantegcia non meno di quella della Valchiria e il nensiero, a tratti, ricorre a Virgilio. Sodisfatto di trovare Brunilde, anche nella colpa, cosí nobile ed altera, cosí degna sempre d’immortale destino, Wotan ne trae conforto alla amarezza del necessario castigo; la collera lotta in lui colla compiacenza paterna e nel doloroso trasporto della predilezione, gli irrompono dalle abbra;le belle e tristi parole::«Questi occhi che un giorno ho tanto accarezzati, in compenso al tuo valore, questi occhi che sfavillavano a traverso le tempeste, mi consolino ancora con un bacio nell’estremo addio!... Essi risplenderanno come stelle ad un uomo fortunato, per me infelice, eterno, si chiudono per sempre. Col mio bacio, l’immortalità da te si parte». Poi, onde compiacere al desiderio della reietta, della ripudiata, egli adagia Brunilde sopra una roccia muscosa, entro la sua candida veste, coll’elmo alato in testa e lo scudo sul petto, e dopo averla soavemente baciata, l’addormenta con tenero atto, al suono d’una dolcissima e cullante melodia. E giunto il momento in cui l’invocata potenza di Loge deve prestare l’opera sua. Dagl’inquieti cromatismi onde il volubile dio è sempre accompagnato, sembrano guizzar scintille, l’incantesimo si compie, il fuoco irrompe da un trillo violento, la fiamma divampa, scoppietta, accerchia, investe la bella dormiente dell’incendio nuziale. Su questa scena meravigliosa, fra le squisitezze della musica domina sovrana la poesia.
E sempre ancora ondeggia la dolce e tenera melodia del sonno, e Wotan che prima avrà esclamato: «Conquiderla deve soltanto colui che sia piú libero di me, che sia un dio!» ora, nel crescente rimpianto dell’amata figliuola, nell’angoscia di quel distacco che lo priva di metà di sè stesso, fierissimo prorompe: «Chi teme la punta della mia spada, il fuoco non affronti mai!» Il motivo di Sigfrido, dell’eroe che Brunilde ha pietosamente protetto prima della sua nascita; che ella sognerà nel lungo sopore, sorge imponente dal fondo dell’orchestra coi suoni maestosi delle trombe e delle tube, come una risposta ineluttabile, ma nelle ultime note echessgia, nondimeno ancora, simbolo d’eterno mistero, la malinconica interrogazione di Wotan al fato; poi, abbandonando con dolore la Valchiria al suo fallace destino, il dio sconsolato, scompare tra le fiamme.
Quando la tela si richiude su quel palco scenico incantato, sembra avere vissuto, con un sogno divino, nella grandezza primitiva delle trascorse età, e per un naturale fenomeno delle facoltà mentali, portate in alto con sí dolce violenza altre gioje d’arte ci tornano alla memoria, altre visioni di senii ci si affacciano accrescendo il nostro rapimento. Ma la profonda rispondenza psichica dell’essere nostro ci annunzia, conemozioni dianzi ignorate, che l’Arte la quale ci sta dinanzi e che tante cose in sé allaccia, ha un seducente e arcano potere, un nuovo ed altissimo scopo.
I boschi che si distendono oltre il teatro, sulla collina; offrono durante i lunghi riposi che dividono gli atti, un ristoro piacevole allo sguardo, un luogo di ritiro opportuno per chi ama isolarsi meditando per non disperdere in mezzo alla folla l’intensità delle impressioni; il giardino da cui si domina il largo paesaggio ridente della città alletta anch’esso le sionore e le fanciulle che seggono arcadicamente sull’erba, leggendo lo spartito del dramma o una qualche guida tematica di esso. Ma, se questi prolungati intervalli sono mecessarii perché la mente troppo non s’affatichi, se presentano nell’ora insolita della rappresentazione una certa attrattiva, nulla havvi invece di piú pesante di quella consuetudine bayreuthiana che costringe a pranzare o cenare nei pressi del teatro, entro quei baracconi di legno ove la ressa della gente e l’insufficienza del servizio, mutano le volgari necessità dello stomaco, in una battaglia e in una difficile conquista.
Eppure, in mezzo a tanta prosa, in quei momenti proprio ripugnante allo spirito, quei restaurants primitivi, già celebri per i discorsi inaugurali che Wagner vi tenne, ci serbano una gradita sorpresa. Il pubblico che nel teatro ha sempre frenato il. proprio entusiasmo, e anche al chiudersi della tela e alla fine del dramma ha applaudito indarno, poichè nessuno risponde mai, saluta ivi, di tratto in tratto, con fervideacclamazioni l’entrata d’un qualche personaggio distinto, onde vediamo sfilarci dinanzi, cantanti, suonatori, direttori d’orchestra, letterati e critici, principi e principesse che s’inchinano deferenti agli artisti.
La presenza cosí vicina degli esecutori non