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mente accennando con la voce, una voce debole, ma così eguale e così intonata che nell’udirla Violante provava sempre un vivo diletto.

Quel giorno ella ne sentì vibrare i suoni dolorosi e toccanti entro se stessa. Le sue mani tremarono sulla tastiera, ma a poco a poco ella si rincorò, e il grande dramma wagneriano finì per affascinare col suo inebriante impero, fino all’oblio d’ogni cosa presente, quelle due anime che l’arte vincitrice deliziosamente allacciava.

Era il terz’atto, era la scena meravigliosa quando Sigfrido va a ridestare sulla roccia, in mezzo a una cerchia di fiamme, la dormente Brunilde, condannata dal padre a quel sonno espiatorio finche non l’avesse vinta un uomo ignaro della paura; era l’ardentissima scena in cui la superba Valchiria, già invaghita dell’atteso liberatore, del sognato eroe, esclama: «Se tu sapessi, gioia dell’universo, come t’ho amato sempre, come sempre sei stato il mio pensiero e il mio tormento...»

E ad un tratto tutto quanto li circondava sembrò sparire agli occhi dei due giovani: essi non videro più che la vetta incandescente e incantata ove la bellissima figlia degli dèi effondeva i suoi vergini ardori nell’anima tumultuosa del mortale guerriero, più non udirono che quella musica fremente d’una irresistibile passione.

I loro occhi, che fino ad un certo punto s’erano sfuggiti, s’incontrarono senza volerlo, quando la trepida amante dice: «A me di Sigfrido la stella