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lante passeggiare col conte Golis, dinanzi alla villa, nel largo piazzale soleggiato e fra le aiuole ove, favorite dal mite autunno, fiorivano ancora, rigogliosamente, le begonie, le olezzanti vaniglie, le salvie di fuoco.

La fanciulla lo scorse tosto e gli fece un cenno gentile con la mano, ma egli si ritirò appena ebbe corrisposto al saluto. Mai gelosia più atroce e torturante aveva assalito cuore d’uomo. Non era la gelosia crucciosa e volgare del sospetto, era la gelosia dolorosa e desolata di colui che si vede strappare da un estraneo, incapace di apprezzarne il valore, l’unico suo bene, la vita istessa; era la gelosia che non può accusare nessuno, che non può trovare sfogo, che si sente irragionevole, ingiusta, quasi malvagia e la cui violenza cresce a misura della propria follìa.

Che cosa domandava egli a Violante? che cosa s’aspettava da lei?... non era già un bene insperabile la dolce amicizia, la confortevole fraternità artistica che gli veniva concessa? Aveva egli diritto d’interporsi, di desiderare che Violante non si sposasse? Non sarebbe questo il frutto del più mostruoso egoismo? No, no, egli l’amava troppo, l’amava al di là di qualunque umana debolezza, sentiva che avrebbe dato volentieri la esistenza per saperla felice.....

Ma perchè quel conte Golis lo irritava tanto? Gli sembrava così vanitoso e superficiale! Un altro forse non lo avrebbe irritato a quel modo.